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Le 10 più belle Poesie di Giovanni Pascoli

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Ultimo aggiornamento: 13 Novembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie di Giovanni Pascoli

Tra i più conosciuti e apprezzati poeti italiani del XIX secolo, Giovanni Pascoli è stato una figura di spicco della poesia decadente.

Cresciuto con una formazione positivistica, nel suo lavoro evidenzia però tutti i limiti della scienza e i problemi nati dalla fede in essa, nonché il bisogno di ritrovare il conforto nella religione, nella famiglia e nell’amore.

Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie di Giovanni Pascoli che ce ne mostrano al meglio il pensiero e la delicatezza poetica. Eccole!

Poesie di Giovanni Pascoli

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  • Il gelsomino notturno
    E s’aprono i fiori notturni,
    nell’ora che penso ai miei cari.
    Sono apparse in mezzo ai viburni
    le farfalle crepuscolari.
    Da un pezzo si tacquero i gridi
    là sola una casa bisbiglia.
    Sotto l’ali dormono i nidi,
    come gli occhi sotto le ciglia.
    Dai calici aperti si esala
    l’odore di fragole rosse.
    Splende un lume là nella sala.
    Nasce l’erba sopra le fosse.
    Un’ape tardiva sussurra
    trovando già prese le celle.
    La Chioccetta per l’aia azzurra
    va col suo pigolio di stelle.
    Per tutta la notte s’esala
    l’odore che passa col vento.
    Passa il lume su per la scala;
    brilla al primo piano: s’è spento…
    è l’alba: si chiudono i petali
    un poco gualciti; si cova,
    dentro l’urna molle e segreta,
    non so che felicità nuova.
  • Il lampo
    E cielo e terra si mostrò qual era:
    la terra ansante, livida, in sussulto;
    il cielo ingombro, tragico, disfatto:
    bianca bianca nel tacito tumulto
    una casa apparì sparì d’un tratto;
    come un occhio, che, largo, esterrefatto,
    s’aprì si chiuse, nella notte nera.
  • Il tuono
    E nella notte nera come il nulla,
    a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
    che frana, il tuono rimbombò di schianto:
    rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
    e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
    e poi vanì. Soave allora un canto
    s’udì di madre, e il moto di una culla.
  • Novembre
    Gemmea l’aria, il sole così chiaro
    che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
    e del prunalbo l’odorino amaro
    senti nel cuore…
    Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
    di nere trame segnano il sereno,
    e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
    sembra il terreno.
    Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
    odi lontano, da giardini ed orti,
    di foglie un cader fragile. È l’estate,
    fredda, dei morti.
  • Sogno
    Per un attimo fui nel mio villaggio,
    nella mia casa. Nulla era mutato
    Stanco tornavo, come da un vïaggio;
    stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.
    Sentivo una gran gioia, una gran pena;
    una dolcezza ed un’angoscia muta.
    – Mamma? – È là che ti scalda un po’ di cena –
    Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.
  • Il passero solitario
    Tu nella torre avita,
    passero solitario,
    tenti la tua tastiera,
    come nel santuario
    monaca prigioniera,
    l’organo, a fior di dita;
    che pallida, fugace,
    stupì tre note, chiuse
    nell’organo, tre sole,
    in un istante effuse,
    tre come tre parole
    ch’ella ha sepolte, in pace.
    Da un ermo santuario
    che sa di morto incenso
    nelle grandi arche vuote,
    di tra un silenzio immenso
    mandi le tue tre note,
    spirito solitario.
  • Di lassù
    La lodola perduta nell’aurora
    si spazia, e di lassù canta alla villa,
    che un fil di fumo qua e là vapora;
    di lassù largamente bruni farsi
    i solchi mira quella sua pupilla
    lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi.
    Qualche zolla nel campo umido e nero
    luccica al sole, netta come specchio:
    fa il villano mannelle in suo pensiero,
    e il canto del cuculo ha nell’orecchio.
  • X agosto
    San Lorenzo, io lo so perché tanto
    di stelle per l’aria tranquilla
    arde e cade, perché sì gran pianto
    nel concavo cielo sfavilla.
    Ritornava una rondine al tetto:
    l’uccisero: cadde tra spini:
    ella aveva nel becco un insetto:
    la cena de’ suoi rondinini.
    Ora è là, come in croce, che tende
    quel verme a quel cielo lontano;
    e il suo nido è nell’ombra, che attende,
    che pigola sempre più piano.
    Anche un uomo tornava al suo nido:
    l’uccisero: disse: Perdono;
    e restò negli aperti occhi un grido:
    portava due bambole in dono…
    Ora là, nella casa romita,
    lo aspettano, aspettano in vano:
    egli immobile, attonito, addita
    le bambole al cielo lontano.
    E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
    sereni, infinito, immortale,
    oh! d’un pianto di stelle lo inondi
    quest’atomo opaco del Male!
  • La gatta
    Era una gatta, assai trita, e non era
    d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino.
    Ora, una notte, (su per il camino
    s’ingolfava e rombava la bufera)
    trassemi all’uscio il suon d’una preghiera,
    e lei vidi e il suo figlio a lei vicino.
    Mi spinse ella, in un dolce atto, il meschino
    tra’ piedi; e sparve nella notte nera.
    Che notte nera, piena di dolore!
    Pianti e singulti e risa pazze e tetri
    urli portava dai deserti il vento.
    E la pioggia cadea, vasto fragore,
    sferzando i muri e scoppiettando ai vetri.
    Facea le fusa il piccolo, contento.
  • Maria
    Ti splende su l’umile testa
    la sera d’autunno, Maria!
    Ti vedo sorridere mesta
    tra i tocchi d’un’Avemaria:
    sorride il tuo gracile viso;
    né trova, il tuo dolce sorriso,
    nessuno:
    così, con quelli occhi che nuovi
    si fissano in ciò che tu trovi
    per via; che nessuno ti sa;
    quelli occhi sì puri e sì grandi,
    coi quali perdoni, e domandi
    pietà:
    quelli occhi sì grandi, sì buoni,
    sì pii, che da quando li apristi,
    ne diedero dolci perdoni!
    ne sparsero lagrime tristi!
    quelli occhi cui nulla mai diede
    nessuno, cui nulla mai chiede
    nessuno!
    quelli occhi che toccano appena
    le cose! due poveri a cena
    dal ricco, ignorati dai più;
    due umili in fondo alla mensa,
    due ospiti a cui non si pensa
    già più!
  • Mare
    M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:
    vanno le stelle, tremolano l’onde.
    Vedo stelle passare, onde passare:
    un guizzo chiama, un palpito risponde.
    Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
    sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
    Ponte gettato sui laghi sereni,
    per chi dunque sei fatto e dove meni?
  • Il brivido
    Mi scosse, e mi corse
    le vene il ribrezzo.
    Passata m’è forse
    rasente, col rezzo
    dell’ombra sua nera,
    la morte…
    Com’era?
    Veduta vanita,
    com’ombra di mosca:
    ma ombra infinita,
    di nuvola fosca
    che tutto fa sera:
    la morte…
    Com’era?
    Tremenda e veloce
    come un uragano
    che senza una voce
    dilegua via vano:
    silenzio e bufera:
    la morte…
    Com’era?
    Chi vede lei, serra
    nè apre più gli occhi.
    Lo metton sotterra
    che niuno lo tocchi,
    gli chieda – Com’era?
    rispondi…
    com’era?
  • Temporale
    Un bubbolio lontano…
    Rosseggia l’orizzonte,
    come affocato, a mare;
    nero di pece, a monte,
    stracci di nubi chiare,
    tra il nero un casolare,
    un’ala di gabbiano.
  • La cavalla storna
    Nella Torre il silenzio era già alto.
    Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
    I cavalli normanni alle lor poste
    frangean la biada con rumor di croste.
    Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
    nata tra i pini su la salsa spiaggia;
    che nelle froge avea del mar gli spruzzi
    ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
    Con su la greppia un gomito, da essa
    era mia madre; e le dicea sommessa:
    “O cavallina, cavallina storna,
    che portavi colui che non ritorna;
    tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
    Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
    il primo d’otto tra miei figli e figlie;
    e la sua mano non toccò mai briglie.
    Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
    tu dai retta alla sua piccola mano.
    Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
    tu dai retta alla sua voce fanciulla”.
    La cavalla volgea la scarna testa
    verso mia madre, che dicea più mesta:
    “O cavallina, cavallina storna,
    che portavi colui che non ritorna;
    lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
    Con lui c’eri tu sola e la sua morte
    O nata in selve tra l’ondate e il vento,
    tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
    sentendo lasso nella bocca il morso,
    nel cuor veloce tu premesti il corso:
    adagio seguitasti la tua via,
    perché facesse in pace l’agonia…”.
    La scarna lunga testa era daccanto
    al dolce viso di mia madre in pianto.
    “O cavallina, cavallina storna,
    che portavi colui che non ritorna;
    oh! due parole egli dové pur dire!
    E tu capisci, ma non sai ridire.
    Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
    con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
    con negli orecchi l’eco degli scoppi,
    seguitasti la via tra gli alti pioppi:
    lo riportavi tra il morir del sole,
    perché udissimo noi le sue parole”.
    Stava attenta la lunga testa fiera.
    Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.
    “O cavallina, cavallina storna,
    portavi a casa sua chi non ritorna!
    a me, chi non ritornerà più mai!
    Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
    Tu non sai, poverina; altri non osa.
    Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
    Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
    esso t’è qui nelle pupille fise.
    Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
    E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
    Ora, i cavalli non frangean la biada:
    dormian sognando il bianco della strada.
    La paglia non battean con l’unghie vuote:
    dormian sognando il rullo delle ruote.
    Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
    disse un nome… Sonò alto un nitrito.

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