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Le 15 più belle Poesie sul Papà

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Ultimo aggiornamento: 3 Dicembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie sul Papà

I nostri papà sono un punto di riferimento importantissimo, nell’infanzia come in età adulta.

Il loro ruolo è quello di dare sicurezza ai propri figli, di farli sentire protetti e di aiutarli nei momenti di difficoltà. Una guida e, soprattutto, un esempio.

Qui di seguito le più belle poesie sul papà che ci faranno imparare a conoscerne gli aspetti più profondi e ad amare il nostro. Eccole!

Poesie sul papà

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  • Mio padre
    (Antonio Machado)
    Io ho quasi un ritratto
    del mio caro padre, nel tempo,
    ma il tempo se lo porta via…
    Mio padre nel giardino di casa nostra
    mio padre tra i suoi libri, che lavora.
    Gli occhi grandi, l’alta fronte
    il viso scarno, i baffi lisci.
    Mio padre nel giardino della nostra casa
    medita, sogna, soffre, parla forte.
    Passeggia. Oh padre mio ancora
    sei lì e il tempo non ti ha cancellato!
    Ormai sono più vecchio di te, padre mio,
    quando mi baciavi.
    Ma nel ricordo, sono anche il bimbo che tu
    conducevi per mano.
  • Il babbo
    (Lina Schwarz)
    Povero babbo! Stanco, scalmanato,
    tutte le sere torna dal lavoro,
    ma per cantar la nanna al suo tesoro
    ha sempre un po’ di forza e un po’ di fiato.
  • Papà, radice e luce
    (Maria Luisa Spaziani)
    Papà, radice e luce,
    portami ancora per mano
    nell’ottobre dorato
    del primo giorno di scuola.
    Le rondini partivano,
    strillavano:
    “fra cinquant’anni
    ci ricorderai”.
  • Al babbo lontano
    (Arpalice Cuman Pertile)
    Caro uccellino che volando vai,
    il babbo mio di certo tu vedrai.
    Digli che è tanto buono il suo bambino,
    e che spesso gli manda un bel bacino.
    Digli che gli vuol bene e che lo aspetta!
    Vola, uccellino, vola vola in fretta!
  • Poesia scritta da papà per il mio compleanno
    (Anna Frank)
    Tu qui sei la più gìovane sebben non più piccina,
    Ma la vita è difficile; la sera e la mattina
    Tutti quanti s’affannano a farti la lezione,
    E così te la contano in qualunque occasione:
    “Ascolta noi adultì: ne abbìamo di esperienza!
    La vita ci ha insegnato la sua sì ardua scienza”.
    Più si diventa vecchi e più cose s’impara;
    Questa è la vecchia regola, pur se ti sembra amara.
    Ogni nostro difetto ci sembra assai piccino.
    Per questo critichiamo facilmente il vicino.
    Perciò, buona, sopporta questi tuoi genitori,
    Cerchiam di giudicarti senza falsi timori.
    Tu lasciati correggere, bimba, non t’arrabbiare.
    Anche se queste pillole sono talvolta amare.
    È meglio far così, per stare in armonia,
    Mentre il tempo che passa il soffrir porta via.
    Tu qui rinchiusa leggi e studi tutto il dì,
    Chi mai pensato avrebbe di vivere così?
    Tu sei così fra noi un soffio d’aria pura
    E solo ti lamenti: “Mi arriva alla cintura
    La camicia più lunga e non ho più braghette.
    Che cosa indosserò? Le scarpe sono strette,
    Per metterle dovrei tagliarmi via le dita.
    Oh Dio come mi angustiano i guai della vita!”.
  • Padre
    (Edgar Albert Guest)
    Sapevo che era il miglior papà
    che qualunque ragazzo
    potesse avere: era buono,
    gentile, divertente, allegro,
    lavoratore e anche paziente;
    severo qualche volta con le
    mie superficialità e le mie
    manchevolezze infantili, ma
    severo sempre a buon fine e
    molto orgoglioso dei suoi
    figlioli ogni qual volta facevano
    qualcosa di buono.
    Quello che non ho saputo capire
    finché non è stato troppo tardi,
    era la profondità della sua saggezza
    e l’immensità del suo sacrificio.
  • Tutti i papà hanno il loro fischio speciale
    (Pam Brown)
    Tutti i papà hanno il loro fischio speciale,
    il loro richiamo speciale.
    Il loro modo di bussare.
    Il loro modo di camminare.
    Il loro marchio sulla nostra vita.
    Crediamo di dimenticarcene, ma poi, nel
    buio, sentiamo un trillare di note
    e il nostro cuore si sente sollevato.
    E abbiamo di nuovo cinque anni:
    stiamo aspettando di udire
    i passi di papà sulla ghiaia del vialetto.
  • Il bambino perduto
    (William Blake)
    Babbo, babbo, dove vai?
    Oh, non camminare così veloce.
    Parla, babbo, parla al tuo bambino,
    O io mi perderò.
    La notte era scura,
    nessun padre c’era;
    Il bimbo era bagnato di rugiada;
    il fango era profondo,
    e il bimbo pianse,
    e la nebbia svanì fugace.
  • Padre, se anche tu non fossi il mio
    (Camillo Sbarbaro)
    Padre, se anche tu non fossi il mio
    Padre se anche fossi a me un estraneo,
    per te stesso egualmente t’amerei.
    Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
    Che la prima viola sull’opposto
    Muro scopristi dalla tua finestra
    E ce ne desti la novella allegro.
    Poi la scala di legno tolta in spalla
    Di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
    Noi piccoli stavamo alla finestra.
    E di quell’altra volta mi ricordo
    Che la sorella mia piccola ancora
    Per la casa inseguivi minacciando
    (la caparbia aveva fatto non so che).
    Ma raggiuntala che strillava forte
    Dalla paura ti mancava il cuore:
    ché avevi visto te inseguir la tua
    piccola figlia, e tutta spaventata
    tu vacillante l’attiravi al petto,
    e con carezze dentro le tue braccia
    l’avviluppavi come per difenderla
    da quel cattivo che eri il tu di prima.
    Padre, se anche tu non fossi il mio
    Padre, se anche fossi a me un estraneo,
    fra tutti quanti gli uomini già tanto
    pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
  • A mio padre
    (Alfonso Gatto)
    Se mi tornassi questa sera accanto
    lungo la via dove scende l’ombra
    azzurra già che sembra primavera,
    per dirti quanto è buio il mondo e come
    ai nostri sogni in libertà s’accenda
    di speranze di poveri di cielo
    io troverei un pianto da bambino
    e gli occhi aperti di sorriso, neri
    neri come le rondini del mare.
    Mi basterebbe che tu fossi vivo,
    un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
    Ora alla terra è un’ombra la memoria
    della tua voce che diceva ai figli:
    – Com’è bella notte e com’è buona
    ad amarci così con l’aria in piena
    fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo
    nel plenilunio sporgere a quel cielo,
    gli uomini incamminati verso l’alba.
  • Ricordo del padre
    (Sibilla Aleramo)
    Sempre che un giardino m’accolga
    io ti riveggo, Padre, fra aiuole,
    lievi le mani su corolle e foglie,
    vivo riveggo carezzare tralci,
    allevi rose e labili campanule,
    silenzioso ti smemorano i giacinti,
    stai fra colori e caldi aromi, Padre,
    solitario trovando, ivi soltanto,
    pago e perfetto senso all’esser tuo.
  • Sulla spiaggia di notte
    (Walt Whitman)
    Sulla spiaggia di notte
    sta una bambina con suo padre
    guardando l’est, il cielo autunnale.
    Attraverso l’oscurità,
    mentre depredanti nuvole, funeree nuvole, in nere masse
    sgorgando,
    più basse cupe e veloci di traverso al cielo,
    in mezzo a una trasparente chiara cintura di etere
    lasciata libera a oriente,
    ascende vasto e calmo Giove, signore degli astri,
    e vicino a lui, solo poco più in alto,
    nuotano le delicate sorelle, le Pleiadi.
    Sulla spiaggia la bambina che tiene la mano del padre,
    quelle nuvole funeree che si abbassano vittoriose per
    divorare tutto,
    guardando piange in silenzio.
    Non piangere, bambina,
    non piangere, mia cara,
    con questi baci ch’io allontani le tue lacrime,
    le nuvole depredanti non saranno più a lungo vittoriose,
    non avranno a lungo il possesso del cielo, divorano le
    stelle soltanto in apparenza,
    Giove riemergerà, sii paziente, guarda ancora un’altra
    notte, le Pleiadi emergeranno,
    sono immortali, tutte quelle stelle dorate e inargentate
    brilleranno ancora,
    le stelle grandi e le piccole brilleranno ancora, durano,
    i vasti soli immortali e le eterne, riflessive lune
    brilleranno ancora.
    Allora mia cara piangerai tu sola per Giove?
    consideri tu sola la sepoltura delle stelle?
    Qualcosa c’è,
    (con le mie labbra calmandoti, io aggiungo in un
    sussurro,
    ti do il primo consiglio, il primo inganno,)
    qualcosa c’è di più immortale anche delle stelle,
    (molte le sepolture, molti i giorni e le notti che passano e
    svaniscono)
    qualcosa che durerà più a lungo anche del luminoso
    Giove,
    più a lungo del sole e di ogni ruotante satellite,
    o delle irradianti sorelle, le Pleiadi.
  • Al padre
    (Salvatore Quasimodo)
    Dove sull’acque viola
    era Messina, tra fili spezzati
    e macerie tu vai lungo binari
    e scambi col tuo berretto di gallo
    isolano. Il terremoto ribolle
    da due giorni, è dicembre d’uragani
    e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
    nei carri merci e noi bestiame infantile
    contiamo sogni polverosi con i morti
    sfondati dai ferri, mordendo mandorle
    e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
    del dolore mise verità e lame
    nei giochi dei bassopiani di malaria
    gialla e terzana gonfia di fango.
    La tua pazienza
    triste, delicata, ci rubò la paura,
    fu lezione di giorni uniti alla morte
    tradita, al vilipendio dei ladroni
    presi fra i rottami e giustiziati al buio
    dalla fucileria degli sbarchi, un conto
    di numeri bassi che tornava esatto
    concentrico, un bilancio di vita futura.
    Il tuo berretto di sole andava su e giù
    nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
    Anche a me misurarono ogni cosa,
    e ho portato il tuo nome
    un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
    Quel rosso del tuo capo era una mitria,
    una corona con le ali d’aquila.
    E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
    ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
    di partenza colorati dalla lanterna
    notturna, e qui da una ruota
    imperfetta del mondo,
    su una piena di muri serrati,
    lontano dai gelsomini d’Arabia
    dove ancora tu sei, per dirti
    ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
    di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
    cicale del biviere, agavi lentischi,
    come il campiere dice al suo padrone:
    “Baciamu li mani”. Questo, non altro.
    Oscuramente forte è la vita.
  • Mio padre è stato per me “l’assassino”,
    (Umberto Saba)
    Mio padre è stato per me “l’assassino”,
    fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
    Allora ho visto ch’egli era un bambino,
    e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
    Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
    un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
    Andò sempre pel mondo pellegrino;
    più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
    Egli era gaio e leggero; mia madre
    tutti sentiva della vita i pesi.
    Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
    “Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”.
    Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
    Eran due razze in antica tenzone.
  • Papà
    (Sylvia Plath)
    Non servi, non servi più,
    O nera scarpa, tu
    In cui trent’anni ho vissuto
    Come un piede, grama e bianca,
    Trattenendo fiato e starnuto.
    Papà, ammazzarti avrei dovuto.
    Ma sei morto prima che io
    Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
    Statua orrenda dal grigio alluce
    Grosso come una foca di Frisco
    E un capo nell’Atlantico estroso
    Al largo di Nauset laggiù
    Dove da verde diventa blu.
    Un tempo io pregavo per riaverti.
    Ach, du.
    In tedesco, in un paese
    Di Polonia al suolo spianato
    Da guerre, guerre, guerre.
    Ma il paese ha un nome molto usato.
    Un amico mio polacco
    Mi dice che ce n’è un sacco.
    Così non ho mai saputo
    Dov’eri passato o cresciuto.
    Mai parlarti ho potuto.
    Mi s’incollava la lingua al palato.
    Mi s’incollava a un filo spinato.
    Ich, ich, ich, ich,
    Non riuscivo a dir di più di così.
    Per me ogni tedesco era te.
    E quell’idioma osceno
    Era un treno, un treno che
    Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.
    A Dachau, Auschwitz, Belsen.
    Da ebrea mi mettevo a parlare,
    E lo sono proprio, magari.
    Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
    Non son molto pure o sincere.
    Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi
    E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi
    Qualcosa di ebreo potrei avere.
    Ho avuto sempre terrore di te,
    Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.
    E il tuo baffo ben curato
    E l’occhio ariano d’un bel blu.
    Uomo-panzer, panzer, O tu –
    Non un Dio ma svastica nera
    Che nessun cielo ci trapela.
    Ogni donna adora un fascista,
    La scarpa in faccia, il brutale
    Cuore di un bruto a te uguale
    Tu stai alla lavagna, papà,
    Nella foto che ho di te,
    Biforcuto nel mento anziché
    Nel piede, ma diavolo sempre,
    Sempre uomo nero che
    Con un morso il cuore mi fende.
    Avevo dieci anni che seppellirono te.
    A venti cercai di morire
    E tornare, tornare a te.
    Anche le ossa mi potevano servire.
    Ma mi tirarono via dal sacco,
    Mi rincollarono i pezzetti.
    E il da farsi così io seppi.
    Fabbricai un modello di te,
    Uomo in nero dall’aria Meinkampf,
    E con il gusto di torchiare.
    E io che dicevo sì, sì.
    Papà, eccomi al finale.
    Tagliati i fili del nero telefono
    Le voci più non ci possono miagolare.
    Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
    Il vampiro che diceva essere te
    E un anno il mio sangue bevé,
    Anzi sette, se tu
    Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.
    Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
    Mai i paesani ti hanno amato.
    Ballano e pestano su di te.
    Che eri tu l’hanno sempre capito.
    Papà, carogna, ho finito.
  • Un ricordo
    (Giovanni Pascoli)
    Andavano e tornavano le rondini,
    intorno alle grondaie della Torre,
    ai rondinotti nuovi. Era d’agosto.
    Avanti la rimessa era già pronto
    il calessino. La cavalla storna
    calava giù, seccata dalle mosche,
    l’un dopo l’altro tutti quattro i tonfi
    dell’unghie su le selci della corte.
    Era un dolce mattino, era un bel giorno:
    di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo”.
    E in un gruppo tubarono le tortori.
    Esse là nella paglia erano in cova.
    Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna
    prestino”. “Sai che volerò!” “Non correr
    tanto: la tua stornella è appena doma”.
    “Eh! mi vuol bene!” “Addio”. “Addio”. “Vai solo?
    non prendi Jên?” “Aspetto quel signore
    da Roma…” “È vero. Ti verremo incontro
    a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
    Tu ci vedrai passando”. “Io vi vedrò”.
    E Margherita, la sorella grande,
    di sedici anni, disse adagio: “Babbo…”
    “Che hai?” “Ho, che leggemmo nel giornale
    che c’è gente che uccide per le strade…”
    Chinò mio padre tentennando il capo
    con un sorriso verso lei. Mia madre
    la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
    come dicendo: A cosa puoi pensare!
    E le rondini andavano e tornavano,
    ai nidi, piene di felicità.
    Mio padre palpeggiò la sua cavalla
    che l’ammusò con cenno familiare.
    Riguardò le tirelle e il sottopancia,
    e raccolte le briglie, calmo e grave,
    si volse ancora a dire: “Addio!” Mia madre
    s’appressò con le due bimbe per mano:
    la più piccina a lui toccò la mazza.
    Egli teneva il piede sul montante.
    E in un gruppo le tortori tubarono,
    e si sentì: “Papà! Papà! Papà!”
    E un poco presa egli sentì, ma poco
    poco, la canna come in un vignuolo,
    come v’avesse cominciato il nodo
    un vilucchino od una passiflora.
    Sì: era presa in una mano molle,
    manina ancora nuova, così nuova
    che tutto ancora non chiudeva a modo.
    Era la bimba che vi avea ravvolte,
    come poteva, le sue dita rosa,
    e che gemeva: “No! no! no! no! no!”
    Mio padre prese la sua bimba in collo,
    col suo gran pianto ch’era di già roco;
    e la baciò, la ribaciò negli occhi
    zuppi di già per non so che martoro.
    “Non vuoi che vada?” “No!” “Perché non vuoi?”
    “No! no!” “Ti porto tante belle cose!”
    “No! no!” La pose in terra: essa di nuovo
    stese alla canna le sue dita rosa,
    gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:
    “No! no! papà! no! no! papà! no! no!”
    Non s’udì che quel pianto e quei singulti
    nel tranquillo mattino tutto luce.
    Più non raspava i ciottoli con l’unghia
    la cavalla, e volgea la testa smunta
    alla bimba. E le tortori, hu, hu!
    Povera bimba! non avea compiuti
    due anni, e ancor dormiva nella culla.
    Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
    assomigliava ad un vagir notturno.
    Mio padre disse: “Non partirò più”.
    Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
    la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
    Lontanò essa con un ringhio acuto.
    E mio padre baciò la creatura,
    e le disse: “Non vado: entro; mi muto,
    e sto con te. Perché tu sia sicura,
    prendi la canna”. Rabbrividì tutta
    essa, come un uccello quando arruffa
    le piume; le spianò; poi con le due
    braccia abbracciò la canna di bambù.
    Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
    non tornò più. Non si rivide a casa.
    Lo portarono a sera in camposanto,
    lo stesero in un tavolo di marmo,
    dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,
    e che avrebbe vissuto anche molti anni.
    Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
    ma piena del suo sangue era una mano.
    Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
    ciò che di lui rimase, ove sarà?
    Sorella, a volte penso che tu l’abbia,
    che tu lo tenga ancora fra le braccia.
    Così mi pare a volte, che ti guardo
    e tu non vedi, ché tu stai pregando.
    Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
    e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
    Stai come quando ti lasciò tuo padre;
    sicura, come allora. Ma una lagrima
    ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
    balbetta ancora, sì: “Papà! Papà!”

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