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Le 15 più belle Poesie sulla Natura

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Ultimo aggiornamento: 3 Dicembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie sulla Natura

La natura è praticamente tutto ciò che ci circonda, ma anche tutto ciò che siamo. Ogni forma di vita, così come ogni fenomeno fisico dipendono dalle sue regole, molte delle quali sono ancora sconosciute alla scienza.

Un’immensità di misteri, ma anche di meraviglie che non possiamo far altro che ammirare stupiti.

Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie sulla natura che ne raccontano la maestosità, la forza e l’incredibile bellezza. Eccole!

Poesie sulla natura

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  • Vedere un mondo in un granello di sabbia
    (William Blake)
    Vedere un mondo in un granello di sabbia,
    E un cielo in un fiore selvatico,
    Tenere l’infinito nel cavo della mano
    E l’eternità in un’ora.
  • Il gelsomino notturno
    (Giovanni Pascoli)
    E s’aprono i fiori notturni,
    nell’ora che penso ai miei cari.
    Sono apparse in mezzo ai viburni
    le farfalle crepuscolari.
    Da un pezzo si tacquero i gridi
    là sola una casa bisbiglia.
    Sotto l’ali dormono i nidi,
    come gli occhi sotto le ciglia.
    Dai calici aperti si esala
    l’odore di fragole rosse.
    Splende un lume là nella sala.
    Nasce l’erba sopra le fosse.
    Un’ape tardiva sussurra
    trovando già prese le celle.
    La Chioccetta per l’aia azzurra
    va col suo pigolio di stelle.
    Per tutta la notte s’esala
    l’odore che passa col vento.
    Passa il lume su per la scala;
    brilla al primo piano: s’è spento…
    è l’alba: si chiudono i petali
    un poco gualciti; si cova,
    dentro l’urna molle e segreta,
    non so che felicità nuova.
  • Vi è un piacere nei boschi inesplorati
    (George Gordon Byron)
    Vi è un piacere nei boschi inesplorati
    e un’estasi nelle spiagge deserte,
    vi è una compagnia che nessuno può turbare
    presso il mare profondo,
    e una musica nel suo ruggito;
    non amo meno l’uomo ma di più la natura
    dopo questi colloqui dove fuggo
    da quel che sono o prima sono stato
    per confondermi con l’universo e lì sentire
    ciò che mai posso esprimere
    né del tutto celare.
  • Il cielo è di tutti
    (Gianni Rodari)
    Qualcuno che la sa lunga
    mi spieghi questo mistero:
    il cielo è di tutti gli occhi
    di ogni occhio è il cielo intero.
    È mio, quando lo guardo.
    È del vecchio, del bambino,
    del re, dell’ortolano,
    del poeta, dello spazzino.
    Non c’è povero tanto povero
    che non ne sia il padrone.
    Il coniglio spaurito
    ne ha quanto il leone.
    Il cielo è di tutti gli occhi,
    ed ogni occhio, se vuole,
    si prende la luna intera,
    le stelle comete, il sole.
    Ogni occhio si prende ogni cosa
    e non manca mai niente:
    chi guarda il cielo per ultimo
    non lo trova meno splendente.
    Spiegatemi voi dunque,
    in prosa od in versetti,
    perché il cielo è uno solo
    e la terra è tutta a pezzetti.
  • Natura è ciò che vediamo
    (Emily Dickinson)
    Natura è tutto ciò che noi vediamo:
    il colle, il pomeriggio, lo scoiattolo,
    l’eclissi, il calabrone.
    O meglio, la natura è il paradiso.
    Natura è tutto ciò che noi udiamo:
    il bobolink, il mare, il tuono, il grillo.
    O meglio, la natura è armonia.
    Natura è tutto quello che sappiamo
    senza avere la capacità di dirlo,
    tanto impotente è la nostra sapienza
    a confronto della sua semplicità.
  • Mezzogiorno alpino
    (Giosuè Carducci)
    Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘I granito
    Squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
    Regna sereno intenso ed infinito
    Nel suo grande silenzio il mezzodí.
    Pini ed abeti senza aura di venti
    Si drizzano nel sol che gli penètra,
    Sola garrisce in picciol suon di cetra
    L’acqua che tenue tra i sassi fluí.
  • La quiete dopo la tempesta
    (Giacomo Leopardi)
    Passata è la tempesta:
    Odo augelli far festa, e la gallina,
    Tornata in su la via,
    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
    Rompe là da ponente, alla montagna;
    Sgombrasi la campagna,
    E chiaro nella valle il fiume appare.
    Ogni cor si rallegra, in ogni lato
    Risorge il romorio
    Torna il lavoro usato.
    L’artigiano a mirar l’umido cielo,
    Con l’opra in man, cantando,
    Fassi in su l’uscio; a prova
    Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
    Della novella piova;
    E l’erbaiuol rinnova
    Di sentiero in sentiero
    Il grido giornaliero.
    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
    Apre terrazzi e logge la famiglia:
    E, dalla via corrente, odi lontano
    Tintinnio di sonagli; il carro stride
    Del passegger che il suo cammin ripiglia.
    Si rallegra ogni core.
    Sì dolce, sì gradita
    Quand’è, com’or, la vita?
    Quando con tanto amore
    L’uomo a’ suoi studi intende?
    O torna all’opre? o cosa nova imprende?
    Quando de’ mali suoi men si ricorda?
    Piacer figlio d’affanno;
    Gioia vana, ch’è frutto
    Del passato timore, onde si scosse
    E paventò la morte
    Chi la vita abborria;
    Onde in lungo tormento,
    Fredde, tacite, smorte,
    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
    Mossi alle nostre offese
    Folgori, nembi e vento.
    O natura cortese,
    Son questi i doni tuoi,
    Questi i diletti sono
    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
    È diletto fra noi.
    Pene tu spargi a larga mano; il duolo
    Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
    Che per mostro e miracolo talvolta
    Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
    Prole cara agli eterni! assai felice
    Se respirar ti lice
    D’alcun dolor: beata
    Se te d’ogni dolor morte risana.
  • Pur con le gambe e i polsi
    (Ho Chi Minh)
    Pur con le gambe e i polsi
    strettamente legati
    ovunque sento uccelli
    e il profumo dei fiori.
    Ascoltate, aspirare
    chi può togliermi quanto
    fa la via meno triste
    l’uomo meno isolato?
  • La mia sera
    (Giovanni Pascoli)
    Il giorno fu pieno di lampi;
    ma ora verranno le stelle,
    le tacite stelle. Nei campi
    c’è un breve gre gre di ranelle.
    Le tremule foglie dei pioppi
    trascorre una gioia leggiera.
    Nel giorno, che lampi! che scoppi!
    Che pace, la sera!
    Si devono aprire le stelle
    nel cielo sì tenero e vivo.
    Là, presso le allegre ranelle,
    singhiozza monotono un rivo.
    Di tutto quel cupo tumulto,
    di tutta quell’aspra bufera,
    non resta che un dolce singulto
    nell’umida sera.
    È, quella infinita tempesta,
    finita in un rivo canoro.
    Dei fulmini fragili restano
    cirri di porpora e d’oro.
    O stanco dolore, riposa!
    La nube nel giorno più nera
    fu quella che vedo più rosa
    nell’ultima sera.
    Che voli di rondini intorno!
    che gridi nell’aria serena!
    La fame del povero giorno
    prolunga la garrula cena.
    La parte, sì piccola, i nidi
    nel giorno non l’ebbero intera.
    Né io… e che voli, che gridi,
    mia limpida sera!
    Don… Don… E mi dicono, Dormi!
    mi cantano, Dormi! sussurrano,
    Dormi! bisbigliano, Dormi!
    là, voci di tenebra azzurra…
    Mi sembrano canti di culla,
    che fanno ch’io torni com’era…
    sentivo mia madre… poi nulla…
    sul far della sera.
  • Alla Luna
    (Giacomo Leopardi)
    O graziosa luna, io mi rammento
    che, or volge l’anno, sovra questo colle
    io venia pien d’angoscia a rimirarti:
    e tu pendevi allor su quella selva
    siccome or fai, che tutta la rischiari.
    Ma nebuloso e tremulo dal pianto
    che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
    il tuo volto apparia, ché travagliosa
    era mia vita: ed è, né cangia stile,
    o mia diletta luna. E pur mi giova
    la ricordanza, e il noverar l’etate
    del mio dolore. Oh come grato occorre
    nel tempo giovanil, quando ancor lungo
    la speme e breve ha la memoria il corso,
    il rimembrar delle passate cose,
    ancor che triste, e che l’affanno duri!
  • La Natura
    (Emily Dickinson)
    La Natura – a volte dissecca un arbusto –
    A volte – scotenna un albero –
    Il suo popolo verde se ne rammenta
    Quando non muore –
    Più languide foglie – di altre stagioni –
    Silenziosamente testimoniano –
    Noi – che abbiamo l’anima –
    Moriamo più spesso – Non così vitalmente –
  • Cogli questo piccolo fiore
    (Rabindranath Tagore)
    Cogli questo piccolo fiore
    e prendilo. Non indugiare!
    Temo che esso appassisca
    e cada nella polvere.
    Non so se potrà trovare
    posto nella tua ghirlanda
    ma onoralo con la carezza pietosa
    della tua mano – e coglilo.
    Temo che il giorno finisca
    prima del mio risveglio
    e passi l’ora dell’offerta.
    Anche se il colore è pallido
    e tenue è il suo profumo
    serviti di questo fiore
    finché c’è tempo – e coglilo.
  • Il testamento di un albero
    (Trilussa)
    Un Albero di un bosco
    chiamò gli uccelli e fece testamento:
    – Lascio i fiori al mare,
    lascio le foglie al vento,
    i frutti al sole e poi
    tutti i semi a voi.
    A voi, poveri uccelli,
    perché mi cantavate le canzoni
    nella bella stagione.
    E voglio che gli sterpi,
    quando saranno secchi,
    facciano il fuoco per i poverelli.
    Però vi avviso che sul mio tronco
    c’è un ramo che dev’essere ricordato
    alla bontà degli uomini e di Dio.
    Perché quel ramo, semplice e modesto,
    fu forte e generoso: e lo provò
    il giorno che sostenne un uomo onesto
    quando ci si impiccò.
  • L’infinito
    (Giacomo Leopardi)
    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    E questa siepe, che da tanta parte
    Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    Spazi di là da quella, e sovrumani
    Silenzi, e profondissima quiete
    Io nel pensier mi fingo; ove per poco
    Il cor non si spaura. E come il vento
    Odo stormir tra queste piante, io quello
    Infinito silenzio a questa voce
    Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    E le morte stagioni, e la presente
    E viva, e il suon di lei. Così tra questa
    Immensità s’annega il pensier mio:
    E il naufragar m’è dolce in questo mare.
  • Natura, vattene!
    (Gianni Rodari)
    Le gridarono:
    “Vattene, Natura!”.
    Lei si prese paura.
    Fece il suo fagottello:
    ci mise dentro
    l’ultimo alberello,
    l’ultima viola
    dell’ultima aiuola
    e uscì dalla città.
    E va, e va… pensava:
    “Mi fermerò nei boschi!”.
    Ma i boschi erano stati
    disboscati.
    “Mi fermerò nei prati!”.
    Ma erano tanto piccoli:
    non c’era posto per tutti
    gli insetti, i mammiferi,
    gli uccelli, i tramonti…
    “Vattene, Natura!”
    E lei se ne andò:
    in quattro ripiegò
    gli ultimi prati
    come fazzoletti.
    Lasciò il pianeta
    AccaZeta…
    Adesso lassù
    è tutta una città:
    di verde – ve lo posso
    giurare – c’è rimasto
    solo il semaforo,
    quando non è rosso…
  • Nella macchia
    (Giovanni Pascoli)
    Errai nell’oblio della valle
    tra ciuffi di stipe fiorite,
    tra querce rigonfie di galle;
    errai nella macchia più sola,
    per dove tra foglie marcite
    spuntava l’azzurra viola;
    errai per i botri solinghi:
    la cincia vedeva dai pini:
    sbuffava i suoi piccoli ringhi
    argentini.
    lo siedo invisibile e solo
    tra monti e foreste: la sera
    non freme d’un grido, d’un volo.
    lo siedo invisibile e fosco;
    ma un cantico di capinera
    si leva dal tacito bosco.
    E il cantico all’ombre segrete
    per dove invisibile io siedo,
    con voce di flauto ripete,
    Io ti vedo?
  • La pioggia nel pineto
    (Gabriele D’Annunzio)
    Taci. Su le soglie
    del bosco non odo
    parole che dici
    umane; ma odo
    parole più nuove
    che parlano gocciole e foglie
    lontane.
    Ascolta. Piove
    dalle nuvole sparse.
    Piove su le tamerici
    salmastre ed arse,
    piove sui pini
    scagliosi ed irti,
    piove su i mirti
    divini,
    su le ginestre fulgenti
    di fiori accolti,
    su i ginepri folti
    di coccole aulenti,
    piove su i nostri volti
    silvani,
    piove su le nostre mani
    ignude,
    su i nostri vestimenti
    leggeri,
    su i freschi pensieri
    che l’anima schiude
    novella,
    su la favola bella
    che ieri
    t’illuse, che oggi m’illude,
    o Ermione.
    Odi? La pioggia cade
    su la solitaria
    verdura
    con un crepitio che dura
    e varia nell’aria secondo le fronde
    più rade, men rade.
    Ascolta. Risponde
    al pianto il canto
    delle cicale
    che il pianto australe
    non impaura,
    né il ciel cinerino.
    E il pino
    ha un suono, e il mirto
    altro suono, e il ginepro
    altro ancora, stromenti
    diversi
    sotto innumerevoli dita.
    E immensi
    noi siam nello spirito
    silvestre,
    d’arborea vita viventi;
    e il tuo volto ebro
    è molle di pioggia
    come una foglia,
    e le tue chiome
    auliscono come
    le chiare ginestre,
    o creatura terrestre
    che hai nome
    Ermione.
    Ascolta, Ascolta. L’accordo
    delle aeree cicale
    a poco a poco
    più sordo
    si fa sotto il pianto
    che cresce;
    ma un canto vi si mesce
    più roco
    che di laggiù sale,
    dall’umida ombra remota.
    Più sordo e più fioco
    s’allenta, si spegne.
    Sola una nota
    ancor trema, si spegne,
    risorge, trema, si spegne.
    Non s’ode su tutta la fronda
    crosciare
    l’argentea pioggia
    che monda,
    il croscio che varia
    secondo la fronda
    più folta, men folta.
    Ascolta.
    La figlia dell’aria
    è muta: ma la figlia
    del limo lontana,
    la rana,
    canta nell’ombra più fonda,
    chi sa dove, chi sa dove!
    E piove su le tue ciglia,
    Ermione.
    Piove su le tue ciglia nere
    sì che par tu pianga
    ma di piacere; non bianca
    ma quasi fatta virente,
    par da scorza tu esca.
    E tutta la vita è in noi fresca
    aulente,
    il cuor nel petto è come pesca
    intatta,
    tra le palpebre gli occhi
    son come polle tra l’erbe,
    i denti negli alveoli
    son come mandorle acerbe.
    E andiam di fratta in fratta,
    or congiunti or disciolti
    ( e il verde vigor rude
    ci allaccia i melleoli
    c’intrica i ginocchi)
    chi sa dove, chi sa dove!
    E piove su i nostri volti
    silvani,
    piove su le nostre mani
    ignude,
    su i nostri vestimenti
    leggeri,
    su i freschi pensieri
    che l’anima schiude
    novella,
    su la favola bella
    che ieri
    m’illuse, che oggi t’illude,
    o Ermione.

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