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Poesie di Cesare Pavese: le 15 più belle ed emozionanti

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Ultimo aggiornamento: 13 Novembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie di Cesare Pavese

Cesare Pavese è stato uno dei più importanti poeti, scrittori e intellettuali italiano del XX secolo. Nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, nel 1908, visse fin dall’infanzia non pochi problemi familiari, segnati in particolare dalla morte in giovane età del padre, dei fratelli e dai problemi di salute della madre.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, divenne attivista del gruppo antifascista “Giustizia e Libertà” e proprio in quanto antifascista fu condannato a tre anni di confino. Nella sua vita visse diverse delusioni amorose che lo portarono alla depressione e alla morte prematura, nel 1950, dopo un’overdose di sonnifero.

Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie di Cesare Pavese che ci aiuteranno a ricordarne la sensibilità poetica e intellettuale. Eccole!

Poesie di Cesare Pavese

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  • Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
    questa morte che ci accompagna
    dal mattino alla sera, insonne,
    sorda, come un vecchio rimorso
    o un vizio assurdo. I tuoi occhi
    saranno una vana parola,
    un grido taciuto, un silenzio.
    Così li vedi ogni mattina
    quando su te sola ti pieghi
    nello specchio. O cara speranza,
    quel giorno sapremo anche noi
    che sei la vita e sei il nulla.
    Per tutti la morte ha uno sguardo.
    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
    Sarà come smettere un vizio,
    come vedere nello specchio
    riemergere un viso morto,
    come ascoltare un labbro chiuso.
    Scenderemo nel gorgo muti.
  • Tu non sai le colline
    Tu non sai le colline
    dove si è sparso il sangue.
    Tutti quanti fuggimmo
    tutti quanti gettammo
    l’arma e il nome. Una donna
    ci guardava fuggire.
    Uno solo di noi
    si fermò a pugno chiuso,
    vide il cielo vuoto,
    chinò il capo e morì
    sotto il muro, tacendo.
    Ora è un cencio di sangue
    il suo nome. Una donna
    ci aspetta alle colline.
  • Ascolteremo nella calma stanca
    Ascolteremo nella calma stanca
    la musica remota
    della nostra tremenda giovinezza
    che in un giorno lontano
    si curvò su se stessa
    e sorrideva come inebriata
    dalla troppa dolcezza e dal tremore.
    Sarà come ascoltare in una strada
    nella divinità della sera
    quelle note che salgono slegate
    lente come il crepuscolo
    dal cuore di una casa solitaria.
    Battiti della vita,
    spunti senz’armonia,
    ma che nell’ansia tesa del tuo amore
    ci crearono, o anima,
    le tempeste di tutte le armonie.
    Ché da tutte le cose
    siamo sempre fuggiti
    irrequieti e insaziati
    sempre portando nel cuore
    l’amore disperato
    verso tutte le cose.
  • Paternità

    Fantasia della donna che balla, e del vecchio
    che è suo padre e una volta l’aveva nel sangue
    e l’ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
    Lei s’affretta per giungere in tempo a svestirsi,
    e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
    le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
    delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
    Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
    con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
    Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
    e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
    che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
    saran padri, e la donna è per tutti una sola.
    È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
    prende il buio davanti alla giovane viva.
    Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
    che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
    Questo sangue, che scorre le membra diritte
    della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
    e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
    lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
    C’è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
    che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
    fuma il padre e l’attende che ritorni, vestita.
    Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
    e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.
  • I gatti lo sapranno
    Ancora cadrà la pioggia
    sui tuoi dolci selciati,
    una pioggia leggera
    come un alito o un passo.
    Ancora la brezza e l’alba
    fioriranno leggere
    come sotto il tuo passo,
    quando tu rientrerai.
    Tra fiori e davanzali
    i gatti lo sapranno.
    Ci saranno altri giorni,
    ci saranno altre voci.
    Sorriderai da sola.
    I gatti lo sapranno.
    Udrai parole antiche,
    parole stanche e vane
    come i costumi smessi
    delle feste di ieri.
    Farai gesti anche tu.
    Risponderai parole −
    viso di primavera,
    farai gesti anche tu.
    I gatti lo sapranno,
    viso di primavera;
    e la pioggia leggera,
    l’alba color giacinto,
    che dilaniano il cuore
    di chi piú non ti spera,
    sono il triste sorriso
    che sorridi da sola.
    Ci saranno altri giorni,
    altre voci e risvegli.
    Soffriremo nell’alba,
    viso di primavera.
  • Ti ho sempre soltanto veduta
    Ti ho sempre soltanto veduta,
    senza parlarti mai,
    nei tuoi istanti più belli.
    Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
    schiantata dalla tua figura,
    che non trovo più pace
    al suo brivido atroce.
    E non posso parlarti,
    nemmeno avvicinarmi,
    ché cadrebbero tutti i miei sogni.
    Oh se tale è il tremore orribile
    che ho nell’anima questa notte,
    e non ti conoscerò mai,
    che cosa diverrebbe il mio povero cuore
    sotto l’urto del sangue,
    alla sublimità di te?
    Se ora mi par di morire,
    che vertigine folle,
    che palpiti moribondi,
    che urli di voluttà e di languore
    mi darebbe la tua realtà?
    Ma io non posso parlarti,
    e nemmeno avvicinarmi:
    nei tuoi istanti più belli
    ti ho sempre soltanto veduta,
    sempre soltanto sognata.
  • Mattino
    La finestra socchiusa contiene un volto
    sopra il campo del mare. I capelli vaghi
    accompagnano il tenero ritmo del mare.
    Non ci sono ricordi su questo viso.
    Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
    L’ombra è umida e dolce come la sabbia
    di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
    Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
    che è la voce del mare fatta ricordo.
    Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
    che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
    Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
    sotto il sole: una luce salsa l’impregna
    e un sapore di frutto marino vivo.
    Non esiste ricordo su questo viso.
    Non esiste parola che lo contenga
    o accomuni alle cose passate. Ieri,
    dalla breve finestra è svanito come
    svanirà tra un istante, senza tristezza
    né parole umane, sul campo del mare.
  • Tu sei per me una creatura triste
    Tu sei per me una creatura triste,
    un fiore labile di poesia,
    che, nell’istante stesso che lo godo
    e tento inebriarmene,
    sento fuggire lontano
    tanto lontano,
    per la miseria dell’anima mia,
    la mia miseria triste.
    Quando ti stringo pazzamente al cuore
    e ti suggo la bocca,
    a lungo, senza posa,
    sono triste, bambina,
    perché sento il mio cuore tanto stanco
    di amarti cosí male.
    Tu mi dài la tua bocca
    e insieme ci sforziamo di godere
    il nostro amore che sarà mai lieto
    perché l’anima in noi è troppo stanca
    dei sogni già sognati.
    Ma sono io sono io il vile,
    e tu sei tanto in alto
    che, quando penso a te,
    non mi resta che struggermi d’amore
    per quel poco di gioia che mi dài,
    non so se per capriccio o per pietà.
    La tua bellezza è una bellezza triste
    quale avrei mai osato di sognare,
    ma, come tu mi hai detto, è solo un sogno.
    Quando ti parlo le cose piú dolci
    e ti stringo al mio cuore
    e tu non pensi a me,
    hai ragione, bambina:
    io sono triste triste e tanto vile.
    Ecco, tu sei per me
    null’altro che una fragile illusione
    dai grandi occhi di sogno,
    che per un’ora mi si stringe al cuore
    e mi ricolma tutto
    di cose dolci, piene di rimpianto.
    Cosí mi accade quando stancamente
    mi struggo a infondere nei versi lievi
    un mio spasimo triste.
    Un fiore labile di poesia,
    nulla di piú, mio amore.
    Ma tu non sai, bambina,
    e mai saprai ciò che mi fa soffrire.
    Continuerò, piccolo fiore biondo,
    che hai già tanto sofferto nella vita,
    a contemplarti il viso che ti piange
    anche quando sorride
    – oh la dolcezza triste del tuo viso!
    non saprai mai, bambina –
    continuerò a adorare accanto a te
    le tue piccole membra melodiose
    che han la dolcezza della primavera
    e son tanto struggenti e profumate
    che io quasi impazzisco
    al pensiero che un altro le amerà
    stringendole al suo corpo.
    Continuerò a adorarti,
    e a baciarti e a soffrire,
    finché tu un giorno mi dirai che tutto
    dovrà essere finito.
    E allora tu non sarai piú lontana
    e non mi sentirò piú stanco il cuore,
    ma urlerò dal dolore
    e ribacerò in sogno
    e mi stringerò al petto
    l’illusione svanita.
    E scriverò per te,
    per il tuo ricordo straziante
    pochi versi dolenti
    che tu non leggerai piú.
    Ma a me staranno atroci
    inchiodati nel cuore
    per sempre.
  • L’amico che dorme
    Che diremo stanotte all’amico che dorme?
    La parola più tenue ci sale alle labbra
    dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,
    le sue inutili labbra che non dicono nulla,
    parleremo sommesso.
    La notte avrà il volto
    dell’antico dolore che riemerge ogni sera
    impassibile e vivo. Il remoto silenzio
    soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
    Parleremo alla notte che fiata sommessa.
    Udiremo gli istanti stillare nel buio
    al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
    che verrà d’improvviso incidendo le cose
    contro il morto silenzio. L’inutile luce
    svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
    taceranno. E le cose parleranno sommesso.
  • Marzo
    Io sono Marzo che vengo col vento
    col sole e l’acqua e nessuno contento;
    vo’ pellegrino in digiuno e preghiera
    cercando invano la Primavera.
    Di grandi Santi m’adorno e mi glorio:
    Tommaso il sette e poi il grande Gregorio;
    con Benedetto la rondin tornata
    saluta e canta la Santa Annunziata.
    Primavera
    Sarà un volto chiaro.
    S’apriranno le strade
    sui colli di pini
    e di pietra…
    I fiori spruzzati
    di colore alle fontane
    occhieggeranno come
    donne divertite: Le scale
    le terrazze le rondini
    canteranno nel sole.
  • Anche la notte ti somiglia
    Anche la notte ti somiglia,
    la notte remota che piange
    muta, dentro il cuore profondo,
    e le stelle passano stanche.
    Una guancia tocca una guancia –
    è un brivido freddo, qualcuno
    si dibatte e t’implora, solo,
    sperduto in te, nella tua febbre.
    La notte soffre e anela l’alba,
    povero cuore che sussulti.
    O viso chiuso, buia angoscia,
    febbre che rattristi le stelle,
    c’è chi come te attende l’alba
    scrutando il tuo viso in silenzio.
    Sei distesa sotto la notte
    come un chiuso orizzonte morto.
    Povero cuore che sussulti,
    un giorno lontano eri l’alba.
  • Semplicità
    L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in prigione.
    ogni volta che morde in un pezzo di pane.
    In prigione sognava le lepri che fuggono
    sul terriccio invernale. Nella nebbia d’inverno
    l’uomo vive tra muri di strade, bevendo
    acqua fredda e morendo in un pezzo di pane.
    Uno crede che dopo rinasca la vita,
    che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
    con l’odore del vino nella calda osteria,
    e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
    fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
    e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
    gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
    L’uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
    quando proprio si gela, e contempla il suo vino:
    il colore fumoso, il sapore pesante.
    Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
    in prigione, ma adesso non sa più di pane
    né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
    L’uomo solo ripensa a quei campi, contento
    di saperli già arati. Nella sala deserta
    sottovoce, si prova a cantare. Rivede
    lungo l’argine il ciuffo di rovi spogliati
    che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
    E compare la lepre e non hanno più freddo.
  • Donne appassionate
    Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
    quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
    ogni foglia trasale, mentre emergono caute
    sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
    fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
    Le ragazze han paura delle alghe sepolte
    sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
    quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
    e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
    Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
    sono enormi e si vedono muovere incerte,
    come attratte dai copi che passano. Il bosco
    è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
    più che i greto, ma piace alle scure ragazze
    star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
    Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
    alle gambe, e contemplano il mare disteso
    come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
    ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
    balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
    a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
    Cl son occhi nel mare, che traspaiono a volte.
    Quell’ignota straniera, che nuotava di notte
    sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
    è scomparsa una notte e non torna mai più.
    Era grande e doveva esser bianca abbagliante
    perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.
  • Sempre vieni dal mare
    Sempre vieni dal mare
    e ne hai la voce roca,
    sempre hai occhi segreti
    d’acqua viva tra i rovi,
    e fronte bassa, come
    cielo basso di nubi.
    Ogni volta rivivi
    come una cosa antica
    e selvaggia, che il cuore
    già sapeva e si serra.
    Ogni volta è uno strappo,
    ogni volta è la morte.
    Noi sempre combattemmo.
    Chi si risolve all’urto
    ha gustato la morte
    e la porta nel sangue.
    Come buoni nemici
    che non s’odiano più
    noi abbiamo una stessa
    voce, una stessa pena
    e viviamo affrontati
    sotto povero cielo.
    Tra noi non insidie,
    non inutili cose –
    combatteremo sempre.
    Combatteremo ancora,
    combatteremo sempre,
    perché cerchiamo il sonno
    della morte affiancati,
    e abbiamo voce roca
    fronte bassa e selvaggia
    e un identico cielo.
    Fummo fatti per questo.
    Se tu od io cede all’urto,
    segue una notte lunga
    che non è pace o tregua
    e non è morte vera.
    Tu non sei più. Le braccia
    si dibattono invano.
    Fin che ci trema il cuore.
    Hanno detto un tuo nome.
    Ricomincia la morte.
    Cosa ignota e selvaggia
    sei rinata dal mare.
  • Estate
    È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
    e dal corpo raccolto, camminando per strada.
    Ha guardato diritto tendendo la mano,
    nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
    Nell’ímmobile luce dei giorno lontano
    s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
    la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
    è riapparso. La mano si è tesa alla mano
    e la stretta angosciosa era quella d’allora.
    Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
    allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
    È tornata l’angoscia dei giorni lontani
    quando tutta un’immobile estate improvvisa
    di colori e tepori emergeva, agli sguardi
    di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
    che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
    può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
    freddamente, in quegli occhi.
    Fra calmo il ricordo
    alla luce sommessa dei tempo, era un docile
    moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
    Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
    della mano leggera ha riacceso i colori
    e l’estate e i tepori sotto il viviclo cielo.
    Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
    non dan vita che a un duro inumano silenzio.
  • Mania di solitudine
    Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
    Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
    A uscir fuori, le vie tranquille conducono
    dopo un poco, in aperta campagna.
    Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
    stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
    il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
    Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
    sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
    ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
    Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
    qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
    Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
    delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
    Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
    nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
    Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
    che l’accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
    Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
    come so che il mio sangue trascorre le vene.
    La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
    una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
    vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
    di ogni cosa che vive su questa pianura.
    Non importa la notte. Il quadrato di cielo
    mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta
    si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
    dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
    e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
    il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.

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