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Poesie di Giosuè Carducci: le 10 più belle e nostalgiche

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Ultimo aggiornamento: 13 Novembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie di Giosuè Carducci

Giosuè Carducci, Premio Nobel per la letteratura nel 1906, è stato uno dei poeti più influenti del XIX secolo.

La poetica del Carducci è caratterizzata dal classicismo, nel senso di amore verso il mondo antico, verso la patria e nel culto della libertà e dell’eroismo.

Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie di Giosuè Carducci che ne mettono in luce la visione del mondo, della vita e dell’arte. Eccole!

Poesie di Giosuè Carducci

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  • San Martino
    La nebbia a gl’irti colli
    Piovigginando sale,
    E sotto il maestrale
    Urla e biancheggia il mar;
    Ma per le vie del borgo
    Dal ribollir de’ tini
    Va l’aspro odor de i vini
    L’anime a rallegrar.
    Gira su’ ceppi accesi
    Lo spiedo scoppiettando:
    Sta il cacciator fischiando
    Su l’uscio a rimirar
    Tra le rossastre nubi
    Stormi d’uccelli neri,
    Com’esuli pensieri,
    Nel vespero migrar.
  • Pianto antico
    L’albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da’ bei vermigli fior,
    Nel muto orto solingo
    Rinverdí tutto or ora
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.
    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l’inutil vita
    Estremo unico fior,
    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol piú ti rallegra
    Né ti risveglia amor.
  • Nostalgia
    Là in Maremma ove fiorio
    La mia triste primavera,
    Là rivola il pensier mio
    Con i tuoni e la bufera:
    Là nel cielo librarmi
    La mia patria a riguardar,
    Poi co’l tuon vo’ sprofondarmi
    Tra quei colli ed in quel mar.
  • Sabato Santo
    Che giovinezza nova, che lucidi giorni di gioia
    per la cerula effusa chiarità de l’aprile
    cantano le campane con onde e volate di suoni
    da la città su’ poggi lontanamente verdi!
    Da i superati inferni, redimito il crin di vittoria,
    candido, radïante, Cristo risorge al cielo:
    svolgesi da l’inverno il novello anno, e al suo fiore
    già in presagio la messe già la vendemmia ride.
    Ospite nova al mondo, son oggi vent’anni, Maria,
    tu t’affacciasti; e i primi tuoi vagiti coverse
    doppio il suon de le sciolte campane sonanti a la gloria:
    ora e tu ne la gloria de l’età bella stai,
    stai com’uno di questi arboscelli schietti d’aprile
    che a l’aura dolce danno il bianco roseo fiore.
    Volgasi intorno al capo tuo giovin, deh, l’augure suono
    de le campane anc’oggi di primavera e pasqua!
    cacci il verno ed il freddo, cacci l’odio tristo e l’accidia,
    cacci tutte le forme de la discorde vita!
  • Mezzogiorno alpino
    Nel gran cerchio de l’alpi, su ‘I granito
    Squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
    Regna sereno intenso ed infinito
    Nel suo grande silenzio il mezzodí.
    Pini ed abeti senza aura di venti
    Si drizzano nel sol che gli penètra,
    Sola garrisce in picciol suon di cetra
    L’acqua che tenue tra i sassi fluí.
  • Sole d’inverno
    Nel solitario verno de l’anima
    spunta la dolce imagine,
    e tócche frangonsi tosto le nuvole
    de la tristezza e sfumano.
    Già di cerulea gioia rinnovasi
    ogni pensiero: fremere
    sentomi d’intima vita gli spiriti:
    il gelo inerte fendesi.
    Già de’ fantasimi dal mobil vertice
    spiccian gli affetti memori,
    scendon con rivoli freschi di lacrime
    giú per l’ombra del tedio.
    Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
    echi d’amor superstiti
    e con letizia d’acque che a’ margini
    sonni di fiori svegliano.
    Scendono, e in limpido fiume dilagano,
    ove le rive e gli alberi
    e i colli e il tremulo riso de l’aere
    specchiasi vasto e placido.
    Tu su la nubila cima de l’essere,
    tu sali, o dolce imagine;
    e sotto il candido raggio devolvere
    miri il fiume de l’anima.
  • Ideale
    Poi che un sereno vapor d’ambrosia
    da la tua coppa diffuso avvolsemi,
    o Ebe con passo di dea
    trasvolata sorridendo via;
    non più del tempo l’ombra o de l’algide
    cure su ‘l capo mi sento; sentomi,
    o Ebe, l’ellenica vita
    tranquilla ne le vene fluire.
    E i ruinati giù pe ‘l declivio
    de l’età mesta giorni risursero,
    o Ebe, nel tuo dolce lume
    agognanti di rinnovellare;
    e i novelli anni da la caligine
    volenterosi la fronte adergono,
    o Ebe, al tuo raggio che sale
    tremolando e roseo li saluta.
    A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
    stella, da l’alto. Tale ne i gotici
    delùbri, tra candide e nere
    cuspidi rapide salïenti
    con doppia al cielo fila marmorea,
    sta su l’estremo pinnacol placida
    la dolce fanciulla di Jesse
    tutta avvolta di faville d’oro.
    Le ville e il verde piano d’argentei
    fiumi rigato contempla aerea,
    le messi ondeggianti ne’ campi,
    le raggianti sopra
    l’alpe nevi:
    a lei d’intorno le nubi volano;
    fuor de le nubi ride ella fulgida
    a l’albe di maggio fiorenti,
    a gli occasi di novembre mesti.
  • Di notte
    Pur ne l’ombra de’ tuoi lati velami
    Gli umani tedi, o notte, ed i miei bassi
    Crucci ravvolgi e sperdi: a te mi chiami,
    E con te sola il mio cuor solo stassi.
    Di quai d’ozio promesse adempi e sbrami
    Gl’irrequïeti miei spiriti lassi?
    E qual doni potenza a i pensier grami
    Onde a l’eterno o al nulla errando vassi?
    O diva notte, io non so già che sia
    Questo pensoso e presago diletto
    Ove l’ire e i dolor l’anima oblia:
    Ma posa io trovo in te, qual pargoletto
    Che singhiozza e s’addorme de la pia
    Ava abbrunata su l’antico petto.
  • In riva al mare
    Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,
    E di tempeste, o grande, a te non cede:
    L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo
    Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.
    Tra le sucide schiume anche dal fondo
    Stride la rena: e qua e là si vede
    Qualche cetaceo stupido ed immondo
    Boccheggiar ritto dietro immonde prede.
    La ragion de le sue vedette algenti
    Contempla e addita e conta ad una ad una
    Onde belve ed arene invan furenti:
    Come su questa solitaria duna
    L’ire tue negre e gli autunnali venti
    Inutil lampa illumina la luna.
  • A Satana
    A te, de l’essere
    Principio immenso,
    Materia e spirito,
    Ragione e senso;
    Mentre ne’ calici
    Il vin scintilla
    Sí come l’anima
    Ne la pupilla;
    Mentre sorridono
    La terra e il sole
    E si ricambiano
    D’amor parole,
    E corre un fremito
    D’imene arcano
    Da’ monti e palpita
    Fecondo il piano;
    A te disfrenasi
    Il verso ardito,
    Te invoco, o Satana,
    Re del convito.
    Via l’aspersorio
    Prete, e il tuo metro!
    No, prete, Satana
    Non torna in dietro!
    Vedi: la ruggine
    Rode a Michele
    Il brando mistico,
    Ed il fedele
    Spennato arcangelo
    Cade nel vano.
    Ghiacciato è il fulmine
    A Geova in mano.
    Meteore pallide,
    Pianeti spenti,
    Piovono gli angeli
    Da i firmamenti.
    Ne la materia
    Che mai non dorme,
    Re de i fenomeni,
    Re de le forme,
    Sol vive Satana.
    Ei tien l’impero
    Nel lampo tremulo
    D’un occhio nero,
    O ver che languido
    Sfugga e resista,
    Od acre ed umido
    Pròvochi, insista.
    Brilla de’ grappoli
    Nel lieto sangue,
    Per cui la rapida
    Gioia non langue,
    Che la fuggevole
    Vita ristora,
    Che il dolor proroga
    Che amor ne incora.
    Tu spiri, o Satana,
    Nel verso mio,
    Se dal sen rompemi
    Sfidando il dio
    De’ rei pontefici,
    De’ re crüenti:
    E come fulmine
    Scuoti le menti.
    A te, Agramainio,
    Adone, Astarte,
    E marmi vissero
    E tele e carte,
    Quando le ioniche
    Aure serene
    Beò la Venere
    Anadiomene.
    A te del Libano
    Fremean le piante,
    De l’alma Cipride
    Risorto amante:
    A te ferveano
    Le danze e i cori,
    A te i virginei
    Candidi amori,
    Tra le odorifere
    Palme d’Idume,
    Dove biancheggiano
    Le ciprie spume.
    Che val se barbaro
    Il nazareno
    Furor de l’agapi
    Dal rito osceno
    Con sacra fiaccola
    I templi t’arse
    E i segni argolici
    A terra sparse?
    Te accolse profugo
    Tra gli dèi lari
    La plebe memore
    Ne i casolari.
    Quindi un femineo
    Sen palpitante
    Empiendo, fervido
    Nume ed amante,
    La strega pallida
    D’eterna cura
    Volgi a soccorrere
    L’egra natura.
    Tu a l’occhio immobile
    De l’alchimista,
    Tu de l’indocile
    Mago a la vista,
    Del chiostro torpido
    Oltre i cancelli,
    Riveli i fulgidi
    cieli novelli.
    A la Tebaide
    Te ne le cose
    Fuggendo, il monaco
    Triste s’ascose.
    O dal tuo tramite
    Alma divisa,
    Benigno è Satana;
    Ecco Eloisa.
    In van ti maceri
    Ne l’aspro sacco:
    Il verso ei mormora
    Di Maro e Flacco
    Tra la davidica
    Nenia ed il pianto;
    E, forme delfiche,
    A te da canto,
    Rosee ne l’orrida
    Compagnia nera,
    Mena Licoride,
    Mena Glicera.
    Ma d’altre imagini
    D’età più bella
    Talor si popola
    L’insonne cella.
    Ei, da le pagine
    Di Livio, ardenti
    Tribuni, consoli,
    Turbe frementi
    Sveglia; e fantastico
    D’italo orgoglio
    Te spinge, o monaco,
    Su ‘l Campidoglio
    E voi, che il rabido
    Rogo non strusse,
    Voci fatidiche,
    Wicleff ed Husse,
    A l’aura il vigile
    grido mandate:
    S’innova il secolo
    Piena è l’etade.
    E già già tremano
    Mitre e corone:
    Dal chiostro brontola
    La ribellione,
    E pugna e prèdica
    Sotto la stola
    Di fra’ Girolamo
    Savonarola.
    Gittò la tonaca
    Martin Lutero:
    Gitta i tuoi vincoli,
    Uman pensiero,
    E splendi e folgora
    Di fiamme cinto;
    Materia, inalzati:
    Satana ha vinto.
    Un bello e orribile
    Mostro si sferra,
    Corre gli oceani,
    Corre la terra:
    Corusco e fumido
    Come i vulcani,
    I monti supera,
    Divora i piani;
    Sorvola i baratri;
    Poi si nasconde
    Per antri incogniti,
    Per vie profonde;
    Ed esce; e indomito
    Di lido in lido
    Come di turbine
    Manda il suo grido,
    Come di turbine
    L’alito spande:
    Ei passa, o popoli,
    Satana il grande.
    Passa benefico
    Di loco in loco
    Su l’infrenabile
    Carro del foco.
    Salute, o Satana,
    O ribellione,
    O forza vindice
    De la ragione!
    Sacri a te salgano
    Gl’incensi e i vóti!
    Hai vinto il Geova
    De i sacerdoti.
  • Passa la nave mia
    Passa la nave mia con vele nere,
    Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.
    Ho in petto una ferita di dolore,
    Tu ti diverti a farla sanguinare.
    È, come il vento, perfido il tuo core,
    E sempre qua e là presto a voltare.
    Passa la nave mia con vele nere,
    Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.
  • Davanti alle terme di Caracalla
    Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
    le nubi: il vento dal pian tristo move
    umido: in fondo stanno i monti albani
    bianchi di nevi.
    A le cineree trecce alzato il velo
    verde, nel libro una britanna cerca
    queste minacce di romane mura
    al cielo e al tempo.
    Continui, densi, neri, crocidanti
    versansi i corvi come fluttuando
    contro i due muri ch’a più ardua sfida
    levansi enormi.
    ‘Vecchi giganti’ par che insista irato
    l’augure stormo ‘a che tentate il cielo?’
    Grave per l’aure vien da Laterano
    suon di campane.
    Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
    grave fischiando tra la folta barba,
    passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
    nume presente.
    Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
    e de le madri le protese braccia
    te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
    capo de i figli:
    se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
    l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
    l’evandrio colle, e veleggiando a sera
    tra ‘l Campidoglio
    e l’Aventino il reduce quirite
    guardava in alto la città quadrata
    dal sole arrisa, e mormorava un lento
    saturnio carme);
    febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
    quinci respingi e lor picciole cose:
    religïoso è questo orror: la dea
    Roma qui dorme.
    Poggiata il capo al Palatino augusto,
    tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
    per la Capena i forti omeri stende
    a l’Appia via.

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