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Poesie di Antonia Pozzi: le 15 più belle e famose

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Ultimo aggiornamento: 9 Novembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie di Antonia Pozzi

Antonia Pozzi è stata una delle poetesse italiane più importanti del XX secolo. Nonostante abbia vissuto solo ventisei anni, prima di togliersi la vita scrisse diverse opere tutte pubblicate postume.

Dalla personalità molto forte e sensibile allo stesso tempo, Antonia Pozzi ha trasferito nelle sue poesie tutte la sua vita e le sue emozioni.

Ecco quindi le più belle poesie di Antonia Pozzi che ci aiuteranno a conoscerla meglio. Scoprile subito!

Poesie di Antonia Pozzi

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  • Ricongiungimento
    Se io capissi
    quel che vuole dire
    – non vederti più –
    credo che la mia vita
    qui – finirebbe.
    Ma per me la terra
    è soltanto la zolla che calpesto
    e l’altra
    che calpesti tu:
    il resto
    è aria
    in cui – zattere sciolte – navighiamo
    a incontrarci.
    Nel cielo limpido infatti
    sorgono a volte piccole nubi
    fili di lana
    o piume – distanti –
    e chi guarda di lì a pochi istanti
    vede una nuvola sola
    che si allontana.
  • Bellezza
    Ti do me stessa,
    le mie notti insonni,
    i lunghi sorsi
    di cielo e stelle – bevuti
    sulle montagne,
    la brezza dei mari percorsi
    verso albe remote.
    Ti do me stessa,
    il sole vergine dei miei mattini
    su favolose rive
    tra superstiti colonne
    e ulivi e spighe.
    Ti do me stessa,
    i meriggi
    sul ciglio delle cascate,
    i tramonti
    ai piedi delle statue, sulle colline,
    fra tronchi di cipressi animati
    di nidi –
    E tu accogli la mia meraviglia
    di creatura,
    il mio tremito di stelo
    vivo nel cerchio
    degli orizzonti,
    piegato al vento
    limpido – della bellezza:
    e tu lascia ch’io guardi questi occhi
    che Dio ti ha dati,
    così densi di cielo –
    profondi come secoli di luce
    inabissati al di là
    delle vette –
  • Tu la notte io il giorno
    Tu la notte io il giorno
    così distanti e immutevoli
    nel tempo
    così vicini come due alberi
    posti uno di fronte all’altro
    a creare lo stesso giardino
    ma senza possibilità di
    toccarsi
    se non con i pensieri
    Tu la notte io il giorno
    tu con le tue stelle e la luna
    silenziosa
    io con le mie nuvole ed il
    sole abbagliante
    tu che conosci la brezza
    della sera
    ed io che rincorro il vento
    caldo
    fino a quando giunge il
    tramonto
    I rami divengono mani
    tiepide
    che si intrecciano
    appassionate
    le foglie sono sospiri
    nascosti
    le stelle diventano occhi di
    brace
    e le nuvole un lenzuolo che
    scopre la nudità
    La luna e il sole sono due
    amanti rapidi e fugaci
    e non siamo più io e te
    siamo noi fusi insieme
    nella completezza della luce
    fioca
    ondeggiante come la marea
    in eterna corsa…
    So cosa significa amore
    quando il giorno muore.
  • Canto della mia nudità
    Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
    Languore della mia capigliatura
    Alla tensione snella del mio piede,
    io sono tutta una magrezza acerba
    inguainata in un color avorio.
    Guarda: pallida è la carne mia.
    Si direbbe che il sangue non vi scorra.
    Rosso non ne traspare. Solo un languido
    Palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
    Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
    È la curva dei fianchi, ma i ginocchi
    E le caviglie e tutte le giunture,
    ho scarne e salde come un puro sangue.
    Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
    Del bagno bianco e m’inarcherò nuda
    domani sopra un letto, se qualcuno
    mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
    stesa supina sotto troppa terra,
    starò, quando la morte avrà chiamato.
  • La vita
    Alle soglie d’autunno
    in un tramonto
    muto
    scopri l’onda del tempo
    e la tua resa
    segreta
    come di ramo in ramo
    leggero
    un cadere d’uccelli
    cui le ali non reggono più.
  • Ninfee
    Ninfee pallide lievi
    coricate sul lago –
    guanciale che una fata
    risvegliata
    lasciò
    sull’acqua verdeazzurra –
    ninfee –
    con le radici lunghe
    perdute
    nella profondità che trascolora –
    anch’io non ho radici
    che leghino la mia
    vita – alla terra –
    anch’io cresco dal fondo
    di un lago – colmo
    di pianto.
  • Prati
    Forse non è nemmeno vero
    quel che a volte ti senti urlare in cuore:
    che questa vita è,
    dentro il tuo essere,
    un nulla
    e che ciò che chiamavi la luce
    è un abbaglio,
    l’abbaglio estremo
    dei tuoi occhi malati –
    e che ciò che fingevi la meta
    è un sogno,
    il sogno infame
    della tua debolezza.
    Forse la vita è davvero
    quale la scopri nei giorni giovani:
    un soffio eterno che cerca
    di cielo in cielo
    chissà che altezza.
    Ma noi siamo come l’erba dei prati
    che sente sopra sé passare il vento
    e tutta canta nel vento
    e sempre vive nel vento,
    eppure non sa così crescere
    da fermare quel volo supremo
    né balzare su dalla terra
    per annegarsi in lui.
  • Pianura
    Certe sere vorrei salire
    sui campanili della pianura,
    veder le grandi nuvole rosa
    lente sull’orizzonte
    come montagne intessute
    di raggi.
    Vorrei capire dal cenno dei pioppi
    dove passa il fiume
    e quale aria trascina;
    saper dire dove nascerà il sole
    domani
    e quale via percorrerà, segnata
    sul riso già imbiondito,
    sui grani.
    Vorrei toccare con le mia dita
    l’orlo delle campane, quando cade il giorno
    e si leva la brezza:
    sentir passare nel bronzo il battito
    di grandi voli lontani.
  • Riflessi
    Parole – vetri
    che infedelmente
    rispecchiate il mio cielo –
    di voi pensai
    dopo il tramonto
    in una oscura strada
    quando sui ciotoli una vetrata cadde
    ed i frantumi a lungo
    sparsero in terra lume –
  • Amore di lontananza
    Ricordo che, quand’ero nella casa
    della mia mamma, in mezzo alla pianura,
    avevo una finestra che guardava
    sui prati; in fondo, l’argine boscoso
    nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
    c’era una striscia scura di colline.
    Io allora non avevo visto il mare
    che una sol volta, ma ne conservavo
    un’aspra nostalgia da innamorata.
    Verso sera fissavo l’orizzonte;
    socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
    i contorni e i colori tra le ciglia:
    e la striscia dei colli si spianava,
    tremula, azzurra: a me pareva il mare
    e mi piaceva più del mare vero.
  • Voce di donna
    Io nacqui sposa di te soldato.
    So che a marce e a guerre
    lunghe stagioni ti divelgon da me.
    Curva sul focolare aduno bragi,
    sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
    ma se ti penso all’addiaccio
    piove sul mio corpo autunnale
    come su un bosco tagliato.
    Quando balena il cielo di settembre
    e pare un’arma gigantesca sui monti,
    salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
    che tu mi chiami,
    che tu mi usi
    con la fiducia che dai alle cose,
    come acqua che versi sulle mani
    o lana che ti avvolgi intorno al petto.
    Sono la scarna siepe del tuo orto
    che sta muta a fiorire
    sotto convogli di zingare stelle.
  • In riva alla vita
    Ritorno per la strada consueta,
    alla solita ora,
    sotto un cielo invernale senza rondini,
    un cielo d’oro ancora senza stelle.
    Grava sopra le palpebre l’ombra
    come una lunga mano velata
    e i passi in lento abbandono s’attardano,
    tanto nota è la via
    e deserta
    e silente.
    Scattano due bambini
    da un buio andito
    agitando le braccia:
    l’ombra sobbalza
    striata da un tremulo volo
    di chiare stelle filanti.
    Gridano le campane,
    gridano tutte
    per improvviso risveglio,
    gridano per arcana meraviglia,
    come a un annuncio divino:
    l’anima si spalanca
    con le pupille
    in un balzo di vita.
    Sostano i bimbi
    con le mani unite
    ed io sosto
    per non calpestare
    le pallide stelle filanti
    abbandonate in mezzo alla via.
    Sostano i bimbi cantando
    con la gracile voce
    il canto alto delle campane: ed io sosto
    pensandomi ferma stasera
    in riva alla vita
    come un cespo di giunchi
    che tremi
    presso un’acqua in cammino.
  • Pausa
    Mi pareva che questa giornata
    senza te
    dovesse essere inquieta,
    oscura. Invece è colma
    di una strana dolcezza, che s’allarga
    attraverso le ore –
    forse com’è la terra
    dopo uno scroscio,
    che resta sola nel silenzio a bersi
    l’acqua caduta
    e a poco a poco
    nelle più fonde vene se ne sente
    penetrata.
    La gioia che ieri fu angoscia,
    tempesta –
    ora ritorna a brevi
    tonfi sul cuore,
    come un mare placato:
    al mite sole riapparso brillano,
    candidi doni,
    le conchiglie che l’onda
    lasciò sul lido.
  • Solitudine
    Ho le braccia dolenti e illanguidite
    per un’insulsa brama di avvinghiare
    qualche cosa di vivo, che io senta
    più piccolo di me. Vorrei rapire
    d’un balzo e poi portarmi via, correndo,
    un mio fardello, quando si fa sera;
    avventarmi nel buio per difenderlo,
    come si lancia il mare sugli scogli;
    lottar per lui, finché non rimanesse
    un brivido di vita; poi, cadere
    nella più fonda notte, sulla strada,
    sotto un tumido cielo inargentato
    di luna e di betulle; ripiegarmi
    su quella vita che mi stringo al petto –
    e addormentarla – e anch’io dormire, infine…
    No: sono sola. Sola mi rannicchio
    sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo
    che, invece di una fronte indolenzita,
    io sto baciando come una demente
    la pelle tesa delle mie ginocchia.
  • Canto selvaggio
    Ho gridato di gioia, nel tramonto.
    Cercavo i ciclamini fra i rovai:
    ero salita ai piedi di una roccia
    gonfia e rugosa, rotta di cespugli.
    Sul prato crivellato di macigni,
    sul capo biondo delle margherite,
    sui miei capelli, sul mio collo nudo,
    dal cielo alto si sfaldava il vento.
    Ho gridato di gioia, nel discendere.
    Ho adorato la forza irta e selvaggia
    che fa le mie ginocchia avide al balzo;
    la forza ignota e vergine, che tende
    me come un arco nella corsa certa.
    Tutta la via sapeva di ciclami;
    i prati illanguidivano nell’ombra,
    frementi ancora di carezze d’oro.
    Lontano, in un triangolo di verde,
    il sole s’attardava. Avrei voluto
    scattare, in uno slancio, a quella luce;
    e sdraiarmi nel sole, e denudarmi,
    perché il morente dio s’abbeverasse
    del mio sangue. Poi restare, a notte,
    stesa nel prato, con le vene vuote:
    le stelle – a lapidare imbestialite
    la mia carne disseccata, morta.
  • La vita sognata
    Chi mi parla non sa
    che io ho vissuto un’altra vita –
    come chi dica
    una fiaba
    o una parabola santa.
    Perché tu eri
    la purità mia,
    tu cui un’onda bianca
    di tristezza cadeva sul volto
    se ti chiamavo con labbra impure,
    tu cui lacrime dolci
    correvano nel profondo degli occhi
    se guardavano in alto –
    e così ti parevo più bella.
    O velo
    tu – della mia giovinezza,
    mia veste chiara,
    verità svanita –
    o nodo
    lucente – di tutta una vita
    che fu sognata – forse –
    oh, per averti sognata,
    mia vita cara,
    benedico i giorni che restano –
    il ramo morto di tutti i giorni che restano,
    che servono
    per piangere te.

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