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Poesie di Ugo Foscolo: le 10 più belle e famose

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Ultimo aggiornamento: 10 Novembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie di Ugo Foscolo
Ritratto di Ugo Foscolo (François-Xavier Fabre)

Vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, Ugo Foscolo è stato uno dei poeti più importanti delle correnti neoclassiche e romantiche, nonché della letteratura italiana in generale.

La sua vita fu caratterizzata fin da giovane età da viaggi e fughe, prima per motivi familiari e poi dovuti ai suoi sentimenti italiani e alle sue convinzioni repubblicane in forte contrasto con l’Impero austriaco.

Qui di seguito la nostra selezione delle più belle poesie di Ugo Foscolo sulla vita, sulla natura, sull’amore, sulla morte e tanto altro che ci aiuteranno a scoprirne il carattere e il pensiero. Eccole!

Poesie di Ugo Foscolo

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  • Alla sera
    Forse perché della fatal quiete
    Tu sei l’immago a me sì cara vieni
    0 sera! E quando ti corteggian liete
    Le nubi estive e i zeffiri sereni,
    E quando dal nevoso aere inquiete
    Tenebre e lunghe all’universo meni
    Sempre scendi invocata, e le secrete
    Vie del mio cor soavemente tieni.
    Vagar mi fai cò miei pensier su l’orme
    Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    Questo reo tempo, e van con lui le torme
    Delle cure onde meco egli si strugge;
    E mentre lo guardo la tua pace, dorme
    Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
  • A Zacinto
    Né più mai toccherò le sacre sponde
    Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
    Zacinto mia, che te specchi nell’onde
    Del greco mar da cui vergine nacque
    Venere, e fea quelle isole feconde
    Col suo primo sorriso, onde non tacque
    Le tue limpide nubi e le tue fronde
    L’inclito verso di colui che l’acque
    Cantò fatali, ed il diverso esiglio
    Per cui bello di fama e di sventura
    Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
    Tu non altro che il,canto avrai del figlio,
    O materna mia terra; a noi prescrisse
    Il fato illacrimata sepoltura.
  • In morte del fratello giovanni
    Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
    Di gente in gente, nú vedrai seduto
    Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
    Il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
    La madre or sol, suo dì tardo traendo,
    Parla di me col tuo cenere muto:
    Ma io deluse a voi le palme tendo;
    E se da lunge i miei tetti saluto,
    Sento gli avversi Numi, e le secrete
    Cure che al viver tuo furon tempesta,
    E prego anch’io nel tuo porto quiete.
    Questo di tanta speme oggi mi resta!
    Straniere genti, l’ossa mie rendete
    Allora al petto della madre mesta.
  • Il ritratto
    Scrivo che tu sei bella,
    Scrivo che tutto è accolto
    Sul grazïoso volto
    De’ vezzi il roseo stuol.
    Scrivo che i tuoi dolci occhi
    Vibran soave foco,
    Scrivo… Ma questo è poco
    Per sì gentil beltà.
    Chi mai potria le grazie
    Spiegar di quei colori,
    Ove si stan gli Amori
    Come sul loro altar?
    Dir altro io mai non seppi
    So non che tanto sei
    Vezzosa agli occhi miei
    Ch’altra non sanno amar.
  • Il proprio ritratto
    Soleata ho fronte, occhi incavati intenti,
    Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
    Tumidi labbri ed al sorriso lenti,
    Capo chino, bel collo, irsuto petto;
    Membra esatte; vestir semplice eletto;
    Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
    Sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto,
    Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
    Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso;
    Alle speranze incredulo e al timore,
    Il pudor mi fa vile e prode l’ira:
    Cauta in me parla la ragion; ma Il cuore,
    Ricco di vizj e di virtù, delira
    Morte, tu mi darai fama e riposo.
  • All’amata
    Meritamente, però’ch’io potei
    Abbandonarti, or grido alle frementi
    Onde che batton l’alpi, e i pianti miei
    Sperdono sordi del Tirreno i venti.
    Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
    In lungo esilio fra spergiure genti
    Dal’bel paese ove or meni sì rei,
    Me sospirando, I tuoi giorni fiorenti,
    Sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
    Rupi ch’io varco anelando, e le eterne
    Ov’io qual fiera. dormo atre foreste,
    Sarien ristoro al mio cor sanguinente;
    Ahi, vóta speme! Amor fra l’ombre inferne
    Seguirammi immortale, onnipotente.
  • Alla Musa
    Pur tu copia versavi alma di canto
    su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
    quando dè miei fiorenti anni fuggiva
    la stagion prima, e dietro erale intanto
    questa, che meco per la via del pianto
    scende di Lete ver la muta riva:
    non udito or t’invoco; ohimè! Soltanto
    una favilla del tuo spirto è viva.
    E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
    o Dea! Tu pur mi lasci alle pensose
    membranze, e del futuro al timor cieco.
    Però mi accorgo, e mel ridice amore,
    che mal ponno sfogar rade, operose
    rime il dolor che deve albergar meco.
  • Di se stesso
    Perché taccia il rumor di mia catena
    Di lagrime, di speme, e di amor vivo,
    E di silenzio; ché pietà mi affrena,
    Se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.
    Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
    Ove ogni notte Amor seco mi mena,
    Qui affido il pianto e i miei danni descrivo.
    Qui tutta verso del dolor la piena.
    E narro come i grandi occhi ridenti
    Arsero d’immortal raggio il mio core,
    Come la rosea bocca, e i rilucenti
    Odorati capelli, ed il candore
    Delle divine membra, e i cari accenti
    M’insegnarono alfin pianger d’amore.
  • Non son chi fui
    Non son chi fui; perì di noi gran parte:
    questo che avvanza è sol languore e pianto.
    E secco è il mirto, e son le foglie sparte
    del lauro, speme al giovenil mio canto.
    Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
    vestivan me del lor sanguineo manto,
    cieca è la mente e guasto il core, ed arte
    la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto.
    Che se pur sorge di morir consiglio,
    a mia fiera ragion chiudon le porte
    furor di gloria, e carità di figlio.
    Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
    conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
    e so invocare e non darmi la morte.
  • All’Italia
    Te nudrice alle muse, ospite e Dea
    le barbariche genti che ti han doma
    nomavan tutte; e questo a noi pur fea
    lieve la varia, antiqua, infame soma.
    Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
    ti han morto il senno ed il valor di Roma,
    in te viveva il gran dir che avvolgea
    regali allori alla servil tua chioma.
    Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
    reliquie estreme di cotanto impero;
    anzi il Toscano tuo parlar celeste
    ognor più stempra nel sermon straniero,
    onde, più che di tua divisa veste,
    sia il vincitor di tua barbarie altero.

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