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Poesie di Giacomo Leopardi: le 10 più belle e romantiche

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Ultimo aggiornamento: 13 Novembre 2024
Di: Luca Carlo Ettore Pepino
Poesie di Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi è uno dei poeti più apprezzati e famosi non solo nell’ambito della letteratura italiana, ma anche di quella mondiale.

Vissuto nella prima metà del XIX secolo è una delle figure di spicco del romanticismo letterario. Con le sue parole e le sue poesie ha dato moltissimi spunti di riflessione sul significato dell’esistenza e della condizione umana.

Qui di seguito una raccolta delle più belle poesie di Giacomo Leopardi che ne rappresentano al meglio il pensiero filosofico, ma anche la sua storia personale. Eccole!

Poesie di Giacomo Leopardi

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  • L’infinito
    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    E questa siepe, che da tanta parte
    Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    Spazi di là da quella, e sovrumani
    Silenzi, e profondissima quiete
    Io nel pensier mi fingo; ove per poco
    Il cor non si spaura. E come il vento
    Odo stormir tra queste piante, io quello
    Infinito silenzio a questa voce
    Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    E le morte stagioni, e la presente
    E viva, e il suon di lei. Così tra questa
    Immensità s’annega il pensier mio:
    E il naufragar m’è dolce in questo mare.
  • A Silvia
    Silvia, rimembri ancora
    quel tempo della tua vita mortale,
    quando beltà splendea
    negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
    e tu, lieta e pensosa, il limitare
    di gioventù salivi?
    Sonavan le quiete
    stanze, e le vie d’intorno,
    al tuo perpetuo canto,
    allor che all’opre femminili intenta
    sedevi, assai contenta
    di quel vago avvenir che in mente avevi.
    Era il maggio odoroso: e tu solevi
    così menare il giorno.
    Io gli studi leggiadri
    talor lasciando e le sudate carte,
    ove il tempo mio primo
    e di me si spendea la miglior parte,
    d’in su i veroni del paterno ostello
    porgea gli orecchi al suon della tua voce,
    ed alla man veloce
    che percorrea la faticosa tela.
    Mirava il ciel sereno,
    le vie dorate e gli orti,
    e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
    Lingua mortal non dice
    quel ch’io sentiva in seno.
    Che pensieri soavi,
    che speranze, che cori, o Silvia mia!
    Quale allor ci apparia
    la vita umana e il fato!
    Quando sovviemmi di cotanta speme,
    un affetto mi preme
    acerbo e sconsolato,
    e tornami a doler di mia sventura.
    O natura, o natura,
    perché non rendi poi
    quel che prometti allor? perché di tanto
    inganni i figli tuoi?
    Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
    da chiuso morbo combattuta e vinta,
    perivi, o tenerella. E non vedevi
    il fior degli anni tuoi;
    non ti molceva il core
    la dolce lode or delle negre chiome,
    or degli sguardi innamorati e schivi;
    né teco le compagne ai dì festivi
    ragionavan d’amore.
    Anche perìa fra poco
    la speranza mia dolce: agli anni miei
    anche negaro i fati
    la giovinezza. Ahi come,
    come passata sei,
    cara compagna dell’età mia nova,
    mia lacrimata speme!
    Questo è il mondo? questi
    i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
    onde cotanto ragionammo insieme?
    questa la sorte delle umane genti?
    All’apparir del vero
    tu, misera, cadesti: e con la mano
    la fredda morte ed una tomba ignuda
    mostravi di lontano.
  • Il sabato del villaggio
    La donzelletta vien dalla campagna,
    In sul calar del sole,
    Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
    Un mazzolin di rose e di viole,
    Onde, siccome suole,
    Ornare ella si appresta
    Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
    Siede con le vicine
    Su la scala a filar la vecchierella
    Incontro là dove si perde il giorno;
    E novellando vien del suo buon tempo,
    Quando ai dì della festa ella si ornava,
    Ed ancor sana e snella
    Solea danzar la sera intra di quei
    Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
    Già tutta l’aria imbruna,
    Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
    Giù da’ colli e da’ tetti,
    Al biancheggiar della recente luna.
    Or la squilla dà segno
    Della festa che viene;
    Ed a quel suon diresti
    Che il cor si riconforta.
    I fanciulli gridando
    Su la piazzuola in frotta,
    E qua e là saltando,
    Fanno un lieto romore:
    E intanto riede alla sua parca mensa,
    Fischiando, il zappatore,
    E seco pensa al dì del suo riposo.
    Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
    E tutto l’altro,
    Odi il martel picchiare, odi la sega
    Del legnaiuol, che veglia
    Nella chiusa bottega alla lucerna,
    E s’affretta, e s’adopra
    Di Fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
    Questo di sette è il più gradito giorno,
    Pien di speme e di gioia:
    Diman tristezza e noia
    Recheran l’ore, ed al travaglio usato
    Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
    Garzoncello scherzoso,
    Cotesta età fiorita
    È come un giorno d’allegrezza pieno,
    Giorno chiaro, sereno,
    Che percorre alla festa di tua vita.
    Godi, fanciullo mio: stato soave,
    Stagion lieta è cotesta.
    Altro dirti non vò; ma la tua festa
    Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
  • Il passero solitario
    D’in su la vetta della torre antica,
    Passero solitario, alla campagna
    Cantando vai finché non more il giorno;
    Ed erra l’armonia per questa valle.
    Primavera dintorno
    Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
    Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
    Odi greggi belar, muggire armenti;
    Gli altri augelli contenti, a gara insieme
    Per lo libero ciel fan mille giri,
    Pur festeggiando il lor tempo migliore:
    Tu pensoso in disparte il tutto miri;
    Non compagni, non voli,
    Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
    Canti, e così trapassi
    Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
    Oimè, quanto somiglia
    Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
    Della novella età dolce famiglia,
    E te german di giovinezza, amore,
    Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
    Non curo, io non so come; anzi da loro
    Quasi fuggo lontano;
    Quasi romito, e strano
    Al mio loco natio,
    Passo del viver mio la primavera.
    Questo giorno ch’omai cede la sera,
    Festeggiar si costuma al nostro borgo.
    Odi per lo sereno un suon di squilla,
    Odi spesso un tonar di ferree canne,
    Che rimbomba lontan di villa in villa.
    Tutta vestita a festa
    La gioventù del loco
    Lascia le case, e per le vie si spande;
    E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
    Io solitario in questa
    Rimota parte alla campagna uscendo,
    Ogni diletto e gioco
    Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
    Steso nell’aria aprica
    Mi fere il Sol che tra lontani monti,
    Dopo il giorno sereno,
    Cadendo si dilegua, e par che dica
    Che la beata gioventù vien meno.
    Tu solingo augellin, venuto a sera
    Del viver che daranno a te le stelle,
    Certo del tuo costume
    Non ti dorrai; che di natura è frutto
    Ogni nostra vaghezza
    A me, se di vecchiezza
    La detestata soglia
    Evitar non impetro,
    Quando muti questi occhi all’altrui core,
    E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
    Del dì presente più noioso e tetro,
    Che parrà di tal voglia?
    Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
    Ahi pentiromi, e spesso,
    Ma sconsolato, volgerommi indietro.
  • La quiete dopo la tempesta
    Passata è la tempesta:
    Odo augelli far festa, e la gallina,
    Tornata in su la via,
    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
    Rompe là da ponente, alla montagna;
    Sgombrasi la campagna,
    E chiaro nella valle il fiume appare.
    Ogni cor si rallegra, in ogni lato
    Risorge il romorio
    Torna il lavoro usato.
    L’artigiano a mirar l’umido cielo,
    Con l’opra in man, cantando,
    Fassi in su l’uscio; a prova
    Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
    Della novella piova;
    E l’erbaiuol rinnova
    Di sentiero in sentiero
    Il grido giornaliero.
    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
    Apre terrazzi e logge la famiglia:
    E, dalla via corrente, odi lontano
    Tintinnio di sonagli; il carro stride
    Del passegger che il suo cammin ripiglia.
    Si rallegra ogni core.
    Sì dolce, sì gradita
    Quand’è, com’or, la vita?
    Quando con tanto amore
    L’uomo a’ suoi studi intende?
    O torna all’opre? o cosa nova imprende?
    Quando de’ mali suoi men si ricorda?
    Piacer figlio d’affanno;
    Gioia vana, ch’è frutto
    Del passato timore, onde si scosse
    E paventò la morte
    Chi la vita abborria;
    Onde in lungo tormento,
    Fredde, tacite, smorte,
    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
    Mossi alle nostre offese
    Folgori, nembi e vento.
    O natura cortese,
    Son questi i doni tuoi,
    Questi i diletti sono
    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
    E’ diletto fra noi.
    Pene tu spargi a larga mano; il duolo
    Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
    Che per mostro e miracolo talvolta
    Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
    Prole cara agli eterni! assai felice
    Se respirar ti lice
    D’alcun dolor: beata
    Se te d’ogni dolor morte risana.
  • Alla luna
    O graziosa luna, io mi rammento
    Che, or volge l’anno, sovra questo colle
    Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
    E tu pendevi allor su quella selva
    Siccome or fai, che tutta la rischiari.
    Ma nebuloso e tremulo dal pianto
    Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
    Il tuo volto apparia, che travagliosa
    Era mia vita: ed è, né cangia stile,
    0 mia diletta luna. E pur mi giova
    La ricordanza, e il noverar l’etate
    Del mio dolore. Oh come grato occorre
    Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
    La speme e breve ha la memoria il corso,
    Il rimembrar delle passate cose,
    Ancor che triste, e che l’affanno duri!
  • La sera del dì di festa
    Dolce e chiara è la notte e senza vento,
    E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
    Posa la luna, e di lontan rivela
    Serena ogni montagna. O donna mia,
    Già tace ogni sentiero, e pei balconi
    Rara traluce la notturna lampa:
    Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
    Nelle tue chete stanze; e non ti morde
    Cura nessuna; e già non sai nè pensi
    Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
    Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
    Appare in vista, a salutar m’affaccio,
    E l’antica natura onnipossente,
    Che mi fece all’affanno. A te la speme
    Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
    Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
    Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
    Prendi riposo; e forse ti rimembra
    In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
    Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
    Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
    Quanto a viver mi resti, e qui per terra
    Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
    In così verde etate! Ahi, per la via
    Odo non lunge il solitario canto
    Dell’artigian, che riede a tarda notte,
    Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
    E fieramente mi si stringe il core,
    A pensar come tutto al mondo passa,
    E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
    Il dì festivo, ed al festivo il giorno
    Volgar succede, e se ne porta il tempo
    Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
    Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
    De’ nostri avi famosi, e il grande impero
    Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
    Che n’andò per la terra e l’oceano?
    Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
    Il mondo, e più di lor non si ragiona.
    Nella mia prima età, quando s’aspetta
    Bramosamente il dì festivo, or poscia
    Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
    Premea le piume; ed alla tarda notte
    Un canto che s’udia per li sentieri
    Lontanando morire a poco a poco,
    Già similmente mi stringeva il core.
  • A se stesso
    Or poserai per sempre,
    Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
    Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
    In noi di cari inganni,
    Non che la speme, il desiderio è spento.
    Posa per sempre. Assai
    Palpitasti. Non val cosa nessuna
    I moti tuoi, nè di sospiri è degna
    La terra. Amaro e noia
    La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
    T’acqueta omai. Dispera
    L’ultima volta. Al gener nostro il fato
    Non donò che il morire. Omai disprezza
    Te, la natura, il brutto
    Poter che, ascoso, a comun danno impera,
    E l’infinita vanità del tutto.
  • Scherzo
    Quando fanciullo io venni
    A pormi con le Muse in disciplina,
    L’una di quelle mi pigliò per mano;
    E poi tutto quel giorno
    La mi condusse intorno
    A veder l’officina.
    Mostrommi a parte a parte
    Gli strumenti dell’arte,
    E i servigi diversi
    A che ciascun di loro
    S’adopra nel lavoro
    Delle prose e de’ versi.
    Io mirava, e chiedea:
    Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
    La lima è consumata; or facciam senza.
    Ed io, ma di rifarla
    Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
    Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
  • La ginestra
    Qui su l’arida schiena
    del formidabil monte
    sterminator Vesevo,
    la qual null’altro allegra arbor nè fiore,
    tuoi cespi solitari intorno spargi,
    odorata ginestra,
    contenta dei deserti. Anco ti vidi
    de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
    che cingon la cittade
    la qual fu donna de’ mortali un tempo,
    e del perduto impero
    par che col grave e taciturno aspetto
    faccian fede e ricordo al passeggero.
    Or ti riveggo in questo suol, di tristi
    lochi e dal mondo abbandonati amante,
    e d’afflitte fortune ognor compagna.
    Questi campi cosparsi
    di ceneri infeconde, e ricoperti
    dell’impietrata lava,
    che sotto i passi al peregrin risona;
    dove s’annida e si contorce al sole
    la serpe, e dove al noto
    cavernoso covil torna il coniglio;
    fur liete ville e colti,
    e biondeggiàr di spiche, e risonaro
    di muggito d’armenti;
    fur giardini e palagi,
    agli ozi de’ potenti
    gradito ospizio; e fur città famose
    che coi torrenti suoi l’altero monte
    dall’ignea bocca fulminando oppresse
    con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
    una ruina involve,
    dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
    i danni altrui commiserando, al cielo
    di dolcissimo odor mandi un profumo,
    che il deserto consola. A queste piagge
    venga colui che d’esaltar con lode
    il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
    è il gener nostro in cura
    all’amante natura. E la possanza
    qui con giusta misura
    anco estimar potrà dell’uman seme,
    cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
    con lieve moto in un momento annulla
    in parte, e può con moti
    poco men lievi ancor subitamente
    annichilare in tutto.
    Dipinte in queste rive
    son dell’umana gente
    le magnifiche sorti e progressive.
    Qui mira e qui ti specchia,
    secol superbo e sciocco,
    che il calle insino allora
    dal risorto pensier segnato innanti
    abbandonasti, e volti addietro i passi,
    del ritornar ti vanti,
    e proceder il chiami.
    Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
    di cui lor sorte rea padre ti fece,
    vanno adulando, ancora
    ch’a ludibrio talora
    t’abbian fra se. Non io
    con tal vergogna scenderò sotterra;
    ma il disprezzo piuttosto che si serra
    di te nel petto mio,
    mostrato avrò quanto si possa aperto:
    ben ch’io sappia che obblio
    preme chi troppo all’età propria increbbe.
    Di questo mal, che teco
    mi fia comune, assai finor mi rido.
    Libertà vai sognando, e servo a un tempo
    vuoi di novo il pensiero,
    sol per cui risorgemmo
    della barbarie in parte, e per cui solo
    si cresce in civiltà, che sola in meglio
    guida i pubblici fati.
    Così ti spiacque il vero
    dell’aspra sorte e del depresso loco
    che natura ci diè. Per questo il tergo
    vigliaccamente rivolgesti al lume
    che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
    vil chi lui segue, e solo
    magnanimo colui
    che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
    fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
    Uom di povero stato e membra inferme
    che sia dell’alma generoso ed alto,
    non chiama se nè stima
    ricco d’or nè gagliardo,
    e di splendida vita o di valente
    persona infra la gente
    non fa risibil mostra;
    ma se di forza e di tesor mendico
    lascia parer senza vergogna, e noma
    parlando, apertamente, e di sue cose
    fa stima al vero uguale.
    Magnanimo animale
    non credo io già, ma stolto,
    quel che nato a perir, nutrito in pene,
    dice, a goder son fatto,
    e di fetido orgoglio
    empie le carte, eccelsi fati e nove
    felicità, quali il ciel tutto ignora,
    non pur quest’orbe, promettendo in terra
    a popoli che un’onda
    di mar commosso, un fiato
    d’aura maligna, un sotterraneo crollo
    distrugge sì, che avanza
    a gran pena di lor la rimembranza.
    Nobil natura è quella
    che a sollevar s’ardisce
    gli occhi mortali incontra
    al comun fato, e che con franca lingua,
    nulla al ver detraendo,
    confessa il mal che ci fu dato in sorte,
    e il basso stato e frale;
    quella che grande e forte
    mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
    fraterne, ancor più gravi
    d’ogni altro danno, accresce
    alle miserie sue, l’uomo incolpando
    del suo dolor, ma dà la colpa a quella
    che veramente è rea, che de’ mortali
    madre è di parto e di voler matrigna.
    Costei chiama inimica; e incontro a questa
    congiunta esser pensando,
    siccome è il vero, ed ordinata in pria
    l’umana compagnia,
    tutti fra se confederati estima
    gli uomini, e tutti abbraccia
    con vero amor, porgendo
    valida e pronta ed aspettando aita
    negli alterni perigli e nelle angosce
    della guerra comune. Ed alle offese
    dell’uomo armar la destra, e laccio porre
    al vicino ed inciampo,
    stolto crede così, qual fora in campo
    cinto d’oste contraria, in sul più vivo
    incalzar degli assalti,
    gl’inimici obbliando, acerbe gare
    imprender con gli amici,
    e sparger fuga e fulminar col brando
    infra i propri guerrieri.
    Così fatti pensieri
    quando fien, come fur, palesi al volgo,
    e quell’orror che primo
    contra l’empia natura
    strinse i mortali in social catena,
    fia ricondotto in parte
    da verace saper, l’onesto e il retto
    conversar cittadino,
    e giustizia e pietade, altra radice
    avranno allor che non superbe fole,
    ove fondata probità del volgo
    così star suole in piede
    quale star può quel ch’ha in error la sede.
    Sovente in queste rive,
    che, desolate, a bruno
    veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
    seggo la notte; e sulla mesta landa
    in purissimo azzurro
    veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
    cui di lontan fa specchio
    il mare, e tutto di scintille in giro
    per lo vòto Seren brillar il mondo.
    E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
    ch’a lor sembrano un punto,
    e sono immense, in guisa
    che un punto a petto a lor son terra e mare
    veracemente; a cui
    l’uomo non pur, ma questo
    globo ove l’uomo è nulla,
    sconosciuto è del tutto; e quando miro
    quegli ancor più senz’alcun fin remoti
    nodi quasi di stelle,
    ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
    e non la terra sol, ma tutte in uno,
    del numero infinite e della mole,
    con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
    o sono ignote, o così paion come
    essi alla terra, un punto
    di luce nebulosa; al pensier mio
    che sembri allora, o prole
    dell’uomo? E rimembrando
    il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
    il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
    che te signora e fine
    credi tu data al Tutto, e quante volte
    favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
    granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
    per tua cagion, dell’universe cose
    scender gli autori, e conversar sovente
    co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
    sogni rinnovellando, ai saggi insulta
    fin la presente età, che in conoscenza
    ed in civil costume
    sembra tutte avanzar; qual moto allora,
    mortal prole infelice, o qual pensiero
    verso te finalmente il cor m’assale?
    Non so se il riso o la pietà prevale.
    Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
    cui là nel tardo autunno
    maturità senz’altra forza atterra,
    d’un popol di formiche i dolci alberghi,
    cavati in molle gleba
    con gran lavoro, e l’opre
    e le ricchezze che adunate a prova
    con lungo affaticar l’assidua gente
    avea provvidamente al tempo estivo,
    schiaccia, diserta e copre
    in un punto; così d’alto piombando,
    dall’utero tonante
    scagliata al ciel, profondo
    di ceneri e di pomici e di sassi
    notte e ruina, infusa
    di bollenti ruscelli,
    o pel montano fianco
    furiosa tra l’erba
    di liquefatti massi
    e di metalli e d’infocata arena
    scendendo immensa piena,
    le cittadi che il mar là su l’estremo
    lido aspergea, confuse
    e infranse e ricoperse
    in pochi istanti: onde su quelle or pasce
    la capra, e città nove
    sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
    son le sepolte, e le prostrate mura
    l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
    Non ha natura al seme
    dell’uom più stima o cura
    che alla formica: e se più rara in quello
    che nell’altra è la strage,
    non avvien ciò d’altronde
    fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
    Ben mille ed ottocento
    anni varcàr poi che spariro, oppressi
    dall’ignea forza, i popolati seggi,
    e il villanello intento
    ai vigneti, che a stento in questi campi
    nutre la morta zolla e incenerita,
    ancor leva lo sguardo
    sospettoso alla vetta
    fatal, che nulla mai fatta più mite
    ancor siede tremenda, ancor minaccia
    a lui strage ed ai figli ed agli averi
    lor poverelli. E spesso
    il meschino in sul tetto
    dell’ostel villereccio, alla vagante
    aura giacendo tutta notte insonne,
    e balzando più volte, esplora il corso
    del temuto bollor, che si riversa
    dall’inesausto grembo
    sull’arenoso dorso, a cui riluce
    di Capri la marina
    e di Napoli il porto e Mergellina.
    E se appressar lo vede, o se nel cupo
    del domestico pozzo ode mai l’acqua
    fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
    desta la moglie in fretta, e via, con quanto
    di lor cose rapir posson, fuggendo,
    vede lontano l’usato
    suo nido, e il picciol campo,
    che gli fu dalla fame unico schermo,
    preda al flutto rovente
    che crepitando giunge, e inesorato
    durabilmente sovra quei si spiega.
    Torna al celeste raggio
    dopo l’antica obblivion l’estinta
    Pompei, come sepolto
    scheletro, cui di terra
    avarizia o pietà rende all’aperto;
    e dal deserto foro
    diritto infra le file
    dei mozzi colonnati il peregrino
    lunge contempla il bipartito giogo
    e la cresta fumante,
    ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
    E nell’orror della secreta notte
    per li vacui teatri, per li templi
    deformi e per le rotte
    case, ove i parti il pipistrello asconde,
    come sinistra face
    che per voti palagi atra s’aggiri,
    corre il baglior della funerea lava,
    che di lontan per l’ombre
    rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
    Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
    ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
    dopo gli avi i nepoti,
    sta natura ognor verde, anzi procede
    per sì lungo cammino,
    che sembra star. Caggiono i regni intanto,
    passan genti e linguaggi: ella nol vede:
    e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
    E tu, lenta ginestra,
    che di selve odorate
    queste campagne dispogliate adorni,
    anche tu presto alla crudel possanza
    soccomberai del sotterraneo foco,
    che ritornando al loco
    già noto, stenderà l’avaro lembo
    su tue molli foreste. E piegherai
    sotto il fascio mortal non renitente
    il tuo capo innocente:
    ma non piegato insino allora indarno
    codardamente supplicando innanzi
    al futuro oppressor; ma non eretto
    con forsennato orgoglio inver le stelle,
    nè sul deserto, dove
    e la sede e i natali
    non per voler ma per fortuna avesti;
    ma più saggia, ma tanto
    meno inferma dell’uom, quanto le frali
    tue stirpi non credesti
    o dal fato o da te fatte immortali.

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